Non una recensione

Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne (1/4)

Tempo di lettura: circa 11’30”. /// Video musicali: 13’47”. /// Non una recensione #2. ///

Martedì prossimo è l’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Nel Non una recensione di questo mese ho quindi pensato di parlare di donne. E di uomini. Ma soprattutto di donne. E, in questa prima parte, di musica.



Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne


Prima parte ‒ Seconda parteTerza parteQuarta parte


Sono nato il 25 novembre del 1982. All’epoca non era ancora diventata la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ma sono in qualche modo fiero di essere nato quel giorno. Non che ne abbia alcun merito. È un onore che mi è caduto addosso. Diciamo però che si tratta di un onore che vorrei guadagnarmi a posteriori. Per questo, fra le battaglie che voglio combattere, al fine di migliorare la vita sul pianeta a tutti gli esseri che lo abitano, questa dell’eliminazione della violenza contro le donne è una delle battaglie che più mi stanno a cuore.

Del resto, come ben spiega Jackson Katz ‒ di cui parlo nella seconda parte di questo Non una recensione ‒ il problema della violenza sulle donne è un problema soprattutto maschile. O meglio, l’eliminazione della violenza contro le donne passa soprattutto dagli uomini, da chi questa violenza la commette, non da chi la subisce. Ma se ho deciso di parlare adesso di questo difficile tema, è perché martedì è l’8 marzo. E la festa della donna non è fatta solo per ricordare le discriminazioni e le violenze subite e commesse. Nella giornata internazionale della donna si ricordano anche le conquiste sociali. E mi sento di dire che queste sono conquiste sociali non delle donne, ma di tutti noi, di tutta la società.

Quindi ecco, per l’originalità vi prego di ripassare, ma in questo mese della Festa della donna in Non una recensione si parla di donne. E di uomini. Ma soprattutto di donne. E lo farò oggi e ogni altro venerdì di marzo, osservando come consuetudine la realtà che ci circonda attraverso la lente di una serie web, di un fumetto, di libri di narrativa e di saggistica, cominciando però da quella lente caleidoscopica che è la musica.

Pronti ad ascoltarvi qualche splendida canzone?


Hard Out Here di Lily Allen

Scritta in collaborazione col produttore Greg Kurstin, Hard Out Here, della cantante inglese Lily Allen, è uscita nel 2013. E bisogna fare un discorso leggermente distinto per la canzone in sé e per il videoclip della stessa.

Hard Out Here è un pezzo in pieno stile Lily Allen. Per chi già la conosce, grazie a canzoni come Not Fair, SmileFuck You, non sarà difficile ritrovarsi in atmosfere già respirate. Ha un testo fatto di ironia tagliente e impegnata, cantato senza peli sulla lingua su un accompagnamento musicale decisamente upbeat e danzereccio, che si scontra in maniera deliziosa con la serietà e la durezza del tema affrontato, che in questo caso sono i cliché e le pressioni sociali alle quali sono sottoposte le donne. Più precisamente, nella canzone si parla soprattutto della volontà e della necessità di combattere questi stereotipi triti e ritriti, e spesso anche lontani dalla realtà, eppure così duri a morire.

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Si comincia, nella prima strofa, con una fiera descrizione di sé: «You’ll find me in the studio and not in the kitchen», mi troverai allo studio di registrazione e non in cucina, canta Lily Allen. E ancora: «Don’t need to shake my ass for you, ‘cause I’ve got a brain», nessun bisogno di scuotere il culo per te, perché un cervello ce l’ho. Poi il testo si fa più esortativo, con la seconda strofa che recita: «There’s a glass ceiling to break, there’s money to make / And now it’s time to speed it up, ‘cause I can’t move at this pace», c’è da rompere un soffitto di cristallo, c’è da farci un guadagno, e adesso è arrivato il momento di accelerare i tempi, perché a questo ritmo mi sembra di marciare sul posto. Per concludere con la denuncia vera e propria dei cliché riguardo a come una donna dovrebbe comportarsi, essere, mostrarsi: «You should probably lose some weight, ‘cause we can’t see your bones / You should probably fix your face or you’ll end up on your own», dovresti magari perdere un qualche chiletto, perché non ti si vedono le ossa, dovresti magari aggiustarti un po’ la faccia o finirai zitella e sola.

Riguardo al videoclip, il discorso è un po’ diverso. Il tema resta grosso modo quello della canzone, ma si concentra su una sfumatura in particolare, quella della situazione che si trovano ad affrontare le donne nell’industria musicale; perlomeno in quella sua parte che è più orientata verso l’aspetto commerciale. All’inizio del video, prima che inizi la musica, vediamo Lily Allen nei panni di una pop star, stesa sul lettino di una sala operatoria, appena prima che le venga fatta una liposuzione. Al suo fianco, il suo manager, un uomo dai capelli bianchi, che stacca gli occhi dal suo cellulare solo per dare indicazioni ai chirurghi e fare commenti sul corpo di lei, e che si chiede ad alta voce come abbia fatto a “conciarsi così”. Lily Allen risponde che ha avuto due figli. Al manager non interessa. Non è certo la prima donna ad aver avuto dei figli. Resta pur sempre una donna, con tutte le conseguenze del caso. Ciò che lo preoccupa, piuttosto, è che, con il fisico che la sua assistita si ritrova, farà più fatica a trovarle degli ingaggi.

Il tono è chiaro, il videoclip è lanciato. Parte la base musicale, Lily Allen si alza dal lettino e comincia a dimenarsi come negli ormai troppi videoclip che mettono in mostra tette e culi, più che musica e parole. Il tutto, chiaramente, in modo parodico ed ironico. Nell’impossibilità di portare all’estremo una tendenza che in tanti videoclip è già andata oltre l’estremo, decide di portarlo verso il ridicolo. E funziona. Chi si rende più ridicolo di tutti è proprio il manager, quando mostra goffamente a Lily Allen i movimenti da eseguire davanti alla telecamera per risultare più sexy.



Interessante, secondo me, è anche il breve making of del videoclip. Lontano dall’essere un documentario che permetta di capire ciò che è stato fatto per creare il video, trovo sia comunque utile per rendersi conto di quanta preparazione ci sia, di quanto in realtà siano innaturali e costruiti i movimenti messi in scena davanti alla telecamera; quei passi di danza, quel look carichissimo di make-up. Al che si capisce anche la reazione che ha Lily Allen alla fine del video della canzone, quando si appresta ad uscire dall’inquadratura, esausta e scarica dopo tutto quel ballare su tacchi impossibili.

E in fondo, per concludere, devo dire che il momento in cui lei mi piace di più è quando si muove in modo assolutamente sgraziato davanti alla scritta “Lily Allen has a baggy pussy”.


Comme ci, comme ça di Zaz

Come Hard Out Here, anche Comme ci, comme ça, cantata dalla francese Zaz, è uscita nel 2013. Stile musicale diverso, lingua diversa, tema però in parte simile. Ma soprattutto, due artiste che, seppur completamente differenti l’una dall’altra, apprezzo tantissimo.

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Nel singolo che l’ha lanciata, Je veux, cantava: «Allons ensemble découvrir ma liberté / Oubliez donc tous vos clichés», partiamo insieme a scoprire la mia libertà, dimenticate dài tutti i vostri cliché. E ancora: «J’en ai marre d’vos bonnes manières, c’est trop pour moi / Moi, je mange avec les mains et j’suis comme ça», non ne posso più delle vostre buone maniere, è troppo per me, io mangio con le mani e son fatta così. Un messaggio in fondo molto simile a quello della canzone che vi propongo oggi.

Comme ci, comme ça parla del restare se stesse nonostante le pressioni sociali di cui parlavo più sopra, seguendo la propria strada, che tracciamo passo dopo passo, rinunciando al contempo alla tentazione di percorrere una strada già tracciata da altri. «On veut faire de moi ce que j’suis pas», canta Zaz in apertura, vogliono fare di me ciò che non sono. L’importante è non fare confronti fra la strada che si è deciso di percorrere e quelle che stanno percorrendo altre persone, «sans vis-à-vis». Si tratta insomma, secondo Zaz ‒ che non è l’autrice della canzone, ma che è intervenuta sul testo ‒ di credere in se stessi, di assumersi le proprie scelte con gioia, di ascoltare la propria vocina interiore invece dello sbraitare delle pubblicità.

Nel video che accompagna la canzone, infatti, si ridicolizzano in maniera particolare proprio le pubblicità e le televendite. Zaz non appare in questo caso sullo schermo, ma il video è divertente e val la pena di essere visto. Oltretutto, scimmiottando un messaggio che sulle reti televisive francesi deve per legge apparire, nelle pubblicità di alcune classi di prodotti, ci dà anche un ottimo consiglio: «Pour votre santé, mangez, bougez… Et chantez !», per la vostra salute, mangiate (senza altre indicazioni, semplicemente “mangiate”), fate movimento… E cantate!



Stupid Girls di P!nk

Cambiamo continente. Un’altra cantante che apprezzo molto è l’americana la statunitense P!nk. (Se scrivessi “americana”, una persona peraltro splendida mi tirerebbe le orecchie; mi fa stare bene come non sono mai stato, ma le sue esperienze in Sudamerica fanno sì che puntualizzi sempre ‒ e giustamente ‒ che l’aggettivo “americano” non può riferirsi solo agli yankee) Di P!nk adoro soprattutto la voce: bella, potente e graffiante come poche altre. Non l’ho mai vista dal vivo, ma mi è capitato di vedere la registrazione di un suo concerto, una sera per caso su Sat3, seduto sul divano con il mio babbo, e mi ha lasciato assolutamente stupefatto. Se gli attributi di un musicista si misurano nelle sue performance live, be’, quelli di P!nk sembrano davvero attributi tosti.

Uscita nel 2006, Stupid Girls, come le due canzoni precedenti, se la prende con gli stereotipi riguardo alle donne e a come apparentemente le vorrebbero gli uomini, ovvero belle e stupide. In questo senso ‒ e qui non parlo direttamente della canzone ‒ voglio sottolineare una cosa di cui parlo anche nei miei concerti casalinghi Per l’amore dei cliché ‒ house concert serviti su un letto di stereotipi, in particolare in quello sul tema dell’identità di genere. I cliché e le pressioni sociali che ne derivano funzionano grosso modo così, semplificando parecchio: gli uomini esercitano queste pressioni su se stessi e sugli altri uomini; le donne, allo stesso modo, esercitano pressioni diverse su se stesse e sulle altre donne. Quello che immaginiamo sia “ciò che vogliono gli uomini” (rispettivamente le donne) in realtà è spesso creato e ancora più spesso diffuso più dalle donne (rispettivamente dagli uomini) che non dalle persone del sesso opposto.

P!nk non è nuova a confrontarsi musicalmente con il tema delle pressioni sociali. Uscita qualche anno prima, nel 2002, Don’t let me get me parla del difficile rapporto che a volte abbiamo con la persona che vediamo riflessa nello specchio. E se a prima vista appare essere un problema fra noi e noi stessi, l’origine è piuttosto da cercare nelle aspettative che crediamo gli altri abbiano riguardo a noi, e che molto probabilmente in realtà gli altri non hanno ‒ perlomeno non genuinamente, quanto piuttosto perché loro come noi credono di doverle avere per essere accettati dalla società, dalle persone che incrociano nella loro vita.

Il tema è però molto più complesso di così e non ne parlerò ulteriormente in questa sede. In compeso, la canzone di P!nk e il video che l’accompagna valgono decisamente la pena di essere ascoltata e visto, se volete farvi due risate e abbozzare un paio di sorrisi amari riguardo a questi cliché.

E nel dubbio, io farei la stessa scelta che fa la bambina, alla fine del videoclip.



La signora del quinto piano di Carmen Consoli

Tornando più vicino a noi, in Italia, Carmen Consoli, di donne e delle situazioni che si trovano a vivere, ha scritto molto. Uscita l’anno scorso e parte dell’album L’abitudine di tornare, La signora sel quinto piano affronta il difficile ma purtroppo sempre attuale tema del femminicidio. Un ex-compagno o un ex-marito non si arrende all’idea della fine della sua relazione con la signora del quinto piano del titolo. Decide così di pedinarla, di controllarla, con un martello in mano. I carabinieri minimizzano. L’inevitabile accade.

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L’ho sentita live, con il trio tutto al femminile con cui Carmen Consoli era in tour ultimamente. Un bel concerto, davvero. «In realtà», ha dichiarato la stessa Carmen Consoli in un’intervista a laRepubblica, «non è stata una questione di genere: […] ho fatto delle ‘blind audition’ in cui non sapevo chi fossero i musicisti. Il fatto che, senza saperlo, abbia scelto due donne è solo la dimostrazione che oggi le donne sono capaci di fare qualsiasi cosa, anche di suonare la batteria, ruolo considerato tradizionalmente maschile. E anche in maniera molto tecnica, come richiedono molti dei miei pezzi»

Tornando all’argomento della canzone, però, nella stessa intervista, la cantautrice catanese sottolinea come sia importante considerare questo problema come un problema della società, non delle donne. «Ci terrei che non venisse considerata più di tanto una questione di genere: bisogna schierarsi prima di tutto per le cause che difendono il debole dal forte. Detto questo, la questione è prima di tutto culturale e ci sono ancora, nel nostro paese ma non solo, situazioni in cui la donna è trattata come una bestia. Per combatterle alla radice la cultura è l’arma più forte ma mi rendo conto che è un processo lungo e difficile. Per cui bisogna essere pratici».

Essere pratici, per Carmen Consoli, ha significato pubblicare una versione a più voci della canzone, a favore del Telefono Rosa, con la partecipazione di ‒ nell’ordine ‒ Nada, Emma, Elisa, Irene Grandi e Gianna Nannini. È potente e tutta da ascoltare. Per me, essere pratici significa invece riprendere questo tema ‒ quello della violenza degli uomini sulle donne ‒ la settimana prossima, nella seconda parte di questo Non una recensione.

E anche in questo caso, si tratterà di smontare qualche cliché.



Rispetto alla prima pubblicazione, ho modificato un po’ i paragrafi introduttivi, semplicemente perché come li avevo scritti ieri non mi convincevano più. Il succo del discorso è rimasto però lo stesso.

 

5 pensieri su “Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne (1/4)

  1. Cogli un punto fondamentale quando dici che il problema della violenza contro le donne è soprattutto un problema maschile: figlio del pregiudizio radicato, del patriarcato, del desiderio di potere e di altri padri noti e ignoti, questo problema può iniziare a essere se non completamente risolto, perlomeno intaccato grazie alla sensibilizzazione degli uomini, ma anche delle donne. Perché non solo ogni uomo, ogni padre, deve mostrare l’esempio verso i ragazzi, ma anche ogni donna, ogni madre, spesso al centro del processo educativo, ha la possibilità di influire. Non dobbiamo dimenticare infatti il ruolo delle madri in luoghi ove queste violenze sono estremamente palesi. E con questa considerazione sono ben lungi dall’assolvere l’uomo, ovviamente primo colpevole . Penso semplicemente che, malgrado l’urgenza riguardi l’arrestare la violenza da parte maschile, solo un’azione congiunta porterà a un reale cambiamento. Ovvero, come sempre: insieme, uomini e donne, verso qualcosa di migliore.

    1. Credo che tutti possono giocare un ruolo. E credo che tutti ‒ donne e uomini ‒ ci guadagnerebbero, da una società libera da violenza e pregiudizi. La via, come dici bene, è in ogni caso da percorrere «insieme, donne e uomini, verso qualcosa di migliore.»

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