Da bambino mangiavo cinque cose, fra cui pasta in bianco, riso in bianco e parmigiano (che per me era la stessa cosa del grana ‒ non ditelo agli emiliani ‒ e dello sbrinz, che mia nonna spacciava per parmigiano per farmelo mangiare; è solo molti anni dopo che ho scoperto perché il parmigiano della nonna aveva un sapore così strano).
Più in generale, non avevo grande interesse per il cibo. Dal momento che mangiavo abbastanza per stare in piedi e correre e fantasticare, non me ne importava molto del gusto. Anzi, “meno gusti strani per tutti” sarebbe probabilmente stato uno dei miei mio slogan politico.
Il mio articolo su una giornata gastronomica passata a Parma ha quindi fatto sorridere più di una persona. Però sì, sono cambiato. Da quando ho cominciato a cucinare, all’università, ho cominciato anche ad apprezzare il cibo, i sapori, la gastronomia. E non per le mie qualità di cuoco, semplicemente perché ‒ come per tutte le cose ‒ quando cominci a mettere le mani in pasta e a scoprire cosa c’è dietro a un piatto, ti accorgi del valore che cela.
Quindi ecco, questa giornata nella City of Gastronomy dell’UNESCO, me la sono proprio goduta. E invito tutti gli amanti del buon cibo a passare qualche giorno a Parma, magari seguendo qualcuno dei consigli che ho dato nel mio articolo.
]]>Chiunque abbia vissuto una parte della sua vita in una regione linguistica diversa da quella in cui è cresciuto sa di cosa parlo in questo mio ultimo articolo pubblicato su Cooperazione. Sono infatti andato a cercare qualche esempio di romandi e svizzeri tedeschi che vivono in Ticino.
Mantenere un rapporto con la propria lingua madre e la propria cultura di riferimento, pur facendo in qualche modo proprie la lingua e la cultura del posto in cui si vive, non è sempre facile né tanto meno scontato. Ogni storia è diversa, certo. Ma chi si è trovato a studiare e/o lavorare in Romandia o in Svizzera interna, probabilmente si riconoscerà in alcune delle riflessioni fatte dai quattro protagonisti del mio articolo.
L’idea però non era solo quella di fargli raccontare la loro esperienza, bensì anche quella di far conoscere qualche possibilità di praticare e incontrare le altre due principali lingue nazionali in Ticino, per chi come me, dopo un periodo oltralpe, è tornato all’ovile.
Per il francese, segnalo quindi Aux Arts Etc., della cui antenna ticinese si occupa Véronique Arlettaz. Per il tedesco, vi invito a scoprire gli incontri organizzati da Peter Jankovsky per Agorà Ascona, ma anche quei club che permettono agli svizzeri tedeschi che vivono in Ticino ‒ in particolare ai pensionati ‒ di ritrovarsi fra loro, per una partita a jass o una tranquilla passeggiata alla scoperta del nostro territorio (l’esempio che ho portato è quello della Deutschschweizer-Verein Minusio, alla cui presidenza c’è Eleni Stäheli). Per finire, per i più piccoli, segnalo con piacere le letture (in francese o in tedesco) proposte dalla biblioteca interculturale per la prima infanzia Ricciogiramondo, alle quali partecipa anche Letizia Gianora, che ho incontrato farmi raccontare la sua esperienza fra francese e italiano.
]]>Vacallo, il paese dove sono cresciuto, ha quattro frazioni, due chiese e due piazze. Non ci si scappa: la piazza del paese, a Vacallo, non c’è, perché ce ne sono due. Anche se poi ognuno proverà a convincerti che “quella vera” è questa invece che quella, o viceversa. E anche da lì, non ci si scappa.
Così, quando si è trattato di decidere di quale piazza parlare nella serie di Cooperazione dedicata alle piazze dei paesi del Ticino, la mia prima idea era proprio quella di parlare, in un singolo articolo, di entrambe: piazza Municipio e piazza San Simone.
Per finire diventava però complicato condensare così tante storie in quattro pagine. Senza contare che, questa delle due piazze, non sembrava una motivazione abbastanza forte per cambiare il concept della rubrica (se anche per Lugano avevamo scelto una piazza, come motivare il fatto di sceglierne due per Vacallo?).
Insomma, a questo giro ha vinto piazza San Simone. Ma solo perché si è appena rifatta il look e verrà inaugurata il prossimo 7 settembre.
]]>Vi presento il grimèll, non proprio una gazzosa, ma per molti versi simile. Sicuramente più nel procedimento necessario per produrlo che non negli ingredienti e nel gusto. Detto questo, è comunque bene specificare una cosa: la gazzosa metro di paragone è quella artigianale, quella fatta fermentare al sole, non quella industriale che si trova nei grotti oggigiorno.
A farmelo conoscere, alcuni anni fa alla Sagra della castagna, sono stati Giorgio e Rosanna Cereghetti. Poi, la scorsa primavera, per qualche motivo il grimèll mi è tornato in mente. Così ho proposto il soggetto per un articolo. Ed eccolo qua.
Se vi interessa saperne di più su questa bevanda estiva, leggermente alcolica, tipica della Valle di Muggio ‒ e di come la tradizione di prepararla è stata ripresa da Rosanna e Giorgio ‒ non vi resta che leggere l’articolo su cooperazione.ch!
]]>Siamo nel pieno della finale dei playoff del campionato svizzero di roller hockey. E il Biasca, per il secondo anno di fila, è una delle due squadre protagoniste di quest’ultimo atto. Nel 2018 ci si è svegliati dal sogno a 4″ dalla fine. Insomma, peggio è accaduto solo ieri sera alla Nazionale svizzera di hockey su ghiaccio, alla quale, per battere il Canada nei quarti di finale del Mondiale 2019, di secondi non ne mancavano 4, bensì 0,4.
Sperando che porti bene al Roller Club Biasca per le ultime e decisive partite della stagione ‒ la serie best of 5 è al momento sull’1-1 ‒ne approfitto allora per riprendere un articolo pubblicato l’anno scorso sulla Rivista 3valli (numero di giugno 2018). L’inizio è ancora una volta la fine, quei maledetti 4″. Ma lo scopo era piuttosto quello di raccontare tutto ciò che di bello c’è prima di quei maledetti 4″: una famiglia e il Barcellona, a soli due passi da casa.
L’esito della finale gli brucia ancora. Ma lo rassicuro subito. Non è di un sogno sfumato a 4” dalla fine che voglio parlare. Da lui mi interessa sapere di una realtà sportiva fra le più belle del Cantone, e delle persone che la rendono tale.
Camillo Boll è uno dei giocatori del Roller Biasca, squadra che in questa stagione si è distinta terminando al primo posto la regular season del campionato svizzero di roller hockey. Cinque partite più tardi si stavano giocando la finale dei playoff contro il Montreux, dominatore delle ultime stagioni e trionfatore anche quest’anno, proprio grazie a quel maledetto gol giunto a meno di una manciata di secondi dall’overtime.
«Se vogliamo paragonarlo a un altro sport», mi spiega Camillo, «potremmo citare il basket, perché ci sono sempre queste spinte in velocità, spalla a spalla», ma i check e i duri contrasti tipici dell’hockey su ghiaccio non sono ammessi. Il risultato è che in primo piano viene messa la tecnica, piuttosto che la fisicità.
Già solo a sentirlo parlare, la sua passione risulta evidente. Eppure per Camillo, che è cresciuto a Biasca e che ora vive in Romandia per gli studi, non è stato proprio un amore a prima vista. «A cinque anni odiavo andare in pista. Per via del rimbombo. La pallina che picchiava contro la sponda mi spaventava.» Ma a furia di giocare a hockey per la strada o in cantina con amici che già facevano parte della squadra, si è lasciato convincere. Lo ha provato e non lo ha più mollato.
Ad aver portato Dario Merenti al Palaroller c’è invece una storia un po’ diversa, che parte geograficamente da più lontano. Quando lo chiamo la prima volta sta per mettere a letto i suoi due bimbi. Abita nel Locarnese, ma il rumore delle palline che sbattono contro le sponde l’ha sentito rimbombare anche lui forte e chiaro e molto presto nelle orecchie. «Faccio questo sport da quando avevo 7 anni e mi sono fermato a 35, quando mi sono reso conto di non riuscire più a giocare contro i ventenni.»
A differenza di Camillo, Dario non è cresciuto nelle Tre Valli. Arriva però da una realtà per certi versi simile a quella di Biasca: un paese di 6’000 abitanti in provincia di Vicenza, con la particolarità di avere una squadra di hockey su pista, come viene più spesso chiamato il roller hockey in Italia. E una volta sbarcato in Ticino, avendo ancora voglia di giocare, Dario è inevitabilmente capitato in Riviera.
A spingerlo a smettere di giocare, oltre all’età, c’è stato il desiderio di dedicare più tempo ai figli. «Però ogni volta che torno al Palaroller sono felicissimo. E sono i bambini stessi che mi chiedono di andare a vedere le partite.»
Più li ascolto e più mi suona evidente. Non è solo una questione di sport e di risultati. «L’ambiente è fantastico», mi dice Camillo, «è la ragione principale per cui ancora oggi mi faccio quattro ore di viaggio ogni volta che si gioca in casa.» Dario parla invece di una grande famiglia. «Ci si conosce tutti quanti, che siano i dirigenti, il presidente, i giocatori, i tifosi, le mamme dei giocatori o gli zii di chi ha giocato vent’anni fa.» La squadra sarà anche al centro di tutto questo, ma il Roller Biasca è molto di più: è la squadra e tutto ciò che le si muove attorno.
«Il pubblico è sempre stato una marcia in più per noi,» continua Camillo. «Dal 2008, da quando è nata la Curva Est, per le altre squadre è sempre stato difficile venire a fare punti da noi, perché un pubblico così caldo e così presente, in Svizzera non ha veramente rivali.» Poi aggiunge: «Fra chi ha giocato a Biasca, anche fra chi non è più con noi, sono sicuro che non ci sia nessuno che sotto sotto non provi ancora affetto per questo strano biancoviola.»
Già, l’attaccamento alla maglia; al viola, in questo caso. Un colore che, fra i tanti presenti sullo stemma di Biasca, proprio non appare. «Il club non è mai stato ricco», mi spiega sempre Camillo. «La scelta è caduta sul viola per non dover fare il doppio treno di maglie per le trasferte. Il viola non ce l’ha nessuno e questo vuol dire che si può sempre giocare in viola.»
A questo punto ho comunque l’impressione che il tipo di ambiente che Camillo e Dario mi descrivono abbia sempre fatto parte di questa bella realtà. A permettere di raggiungere gli straordinari risultati di quest’anno, allora, è stato qualcosa d’altro, l’arrivo di un nuovo giocatore-allenatore dall’Italia, «come la maggior parte degli allenatori che abbiamo avuto», precisa Camillo. In effetti l’hockey su pista, oltre che in Spagna e in Portogallo, è molto praticato anche nella vicina Penisola.
Quando gli chiedo di descrivermi Alberto Orlandi, Camillo mi dice semplicemente: «Una leggenda!» Dario non ha invece avuto il privilegio di essere allenato da lui, avendo appeso i pattini al chiodo già qualche anno fa. In compenso, mi dice, forse lo ha avuto di fronte come avversario.
«Lui ha chiaramente giocato in squadre fortissime», mi spiega, «e qualche volta, quando ancora praticavo l’hockey su pista in Italia, mi è capitato di giocare contro qualcuna di queste squadre.» Ma Dario non è sicuro al 100% di averlo affrontato, non riesce a ricordarsi. Ciò che è sicuro è che Orlandi, in questa stagione, ha messo a segno 44 reti in 16 partite di regular season, risultando il miglior marcatore del campionato davanti a Xavier Torrens Terns, l’autore della famigerata rete a 4” dalla fine della finale di Zuchwil, il quale lo segue a distanza al secondo posto con ben 15 gol in meno.
Eppure mi dico che fama, numeri e statistiche non possono spiegare come un giocatore di 22 anni dica del proprio allenatore che è una leggenda. Ci dev’essere dell’altro. Camillo, a modo suo, me lo conferma. Parla di fiducia, di positività, della grande tranquillità che ha portato in pista con la sua sola presenza. Ma queste sono doti da grande giocatore, non certo da leggenda. E allora, forse senza nemmeno rendersene conto, la chiave per capire come stanno davvero le cose me la dà poco dopo: Orlandi, pur cosciente delle proprie capacità e del credito di cui gode, è quel tipo di persona che con grande umiltà ti prende un attimo da parte, ti fa vedere una nuova mossa da imparare, ti dice “Sì, ce la puoi fare” e ti accompagna fino a che non ce la fai davvero, solo per poterti rinfacciare con un sorriso carico di soddisfazione “Visto che ce l’hai fatta?” e far rotolare di nuovo la pallina verso la prossima sfida.
«Al primo allenamento sui pattini, quando ancora c’era qualcuno che strabuzzava gli occhi, chiedendosi se davanti a noi ci fosse davvero Alberto Orlandi, lui ci ha detto: “Non vi conosco ancora, ma sappiate che io sono venuto qua ad allenare il Barcellona. Non mi interessa chi siete o da dove venite, quello che io darò alla squadra sarà quello che darei al Barcellona per vincere partita dopo partita.” E vincendo partita dopo partita siamo arrivati veramente lontano. Siamo arrivati a 4” dal giocare l’anno prossimo contro il Barcellona in Champions League.»
Il Barcellona, quello del roller, non quello di Messi; quello che è stato 22 volte campione europeo di hockey su pista. In Catalogna, mi spiega Camillo, un singolo club arriva ad avere 6’000 tesserati, lo stesso numero di tesserati che conta l’intero movimento svizzero. Senza contare che lì, nelle squadre d’élite, i giocatori sono tutti professionisti. Un altro pianeta.
Restando con i piedi ben piantati sulla nostra cara Terra, in Ticino abbiamo però e pur sempre il Roller Biasca. E se qualche ragazzino ‒ «ma in realtà anche le bambine», precisa Camillo ‒ vuole provare a cimentarsi con questo sport, deve solo annunciarsi. Ad occuparsi del settore giovanile è sempre lo stesso Alberto Orlandi: la leggenda, colui che è venuto in Ticino ad allenare il Barcellona.
Come a dire che, per chi volesse provare, il Barcellona è comunque davvero a due passi. E più precisamente, dentro al Palaroller di Biasca.
Articolo originariamente pubblicato sul numero di giugno 2018 della Rivista 3valli.
]]>Ritrovare un obiettivo dopo un grave incidente. E grazie a quello ritrovare anche qualità di vita, stimoli e la voglia di tornare a guardare alla vita con un sorriso, anche quando magari ci sembrava impossibile farlo. Questo è più o meno quello che aiuta a fare Francesca Brenni, fisioterapista ticinese attiva a Basilea, che gli incroci della vita hanno portato a specializzarsi nella fisioterapia per sportivi paralimpici.
Il suo metodo di lavoro si riassume nell’acronimo AIM, che sebbene ‒ e non a caso ‒ in inglese significhi “obiettivo”, sta in realtà per “Alles ist möglich”, tutto è possibile in tedesco. «Riassume bene la mia filosofia», mi ha spiegato Francesca quando l’ho incontrata nel suo studio per l’intervista. «Con il mio lavoro cerco di portare tutti a raggiungere i propri obiettivi. Per questo, le prime domande che pongo sono sempre le stesse. Cosa ti aspetti da me? Cosa vuoi ottenere con la fisioterapia? Quali sono i tuoi obiettivi personali? Se le risposte a queste domande non sono chiare, non riesco a creare un programma di fisioterapia che abbia senso».
Per approfondire, non vi resta che leggere l’articolo su cooperazione.ch!
]]>Se è da un po’ che mi seguite, forse sapete che uno dei temi che più mi stanno a cuore e che mi lavorano dentro è quello del nostro rapporto con i cliché e con gli stereotipi. L’ho approfondito molto, negli ultimi anni, spargendone manciate qua e là in vari progetti, tanto che faccio ormai quasi fatica a non guardare le cose attraverso queste lenti.
La maggior parte delle volte, ai cliché non facciamo nemmeno caso. Perlomeno non troppo. In un certo senso, questo passare sotto traccia è parte stessa della natura dei cliché. E anche quando ci rendiamo conto di essere per così dire vittime di uno di essi ‒ o quando notiamo che il comportamento di altre persone, in una determinata situazione, è fortemente influenzato da uno stereotipo ‒ ci diacimo che non è poi così grave, che in fondo basta riderci su.
Secondo me sbagliamo a prenderli sotto gamba. Sbagliamo soprattutto a minimizzare l’influenza che i cliché hanno sul nostro modo di essere, sul nostro modo di relazionarci agli altri e quindi, di conseguenza e più in generale, sulle nostre stesse vite nel loro insieme.
Nel mio piccolo, provo quindi ogni tanto a scardinarne qualcuno. Ad esempio con questo articolo sulla street art in Ticino, pubblicato sul numero 15 di Cooperazione. Spesso vista più come un atto vandalico che non come espressione artistica, la street art è in realtà molto diversa dall’idea che molti se ne sono fatti, più legata agli inizi del writing negli anni ’80 e ’90 che non alla realtà di oggi, pur evolutasi da quell’esperienza.
E negli anni ’90 hanno mosso i primi passi anche i Nevercrew, due formato da Christian Rebecchi e Pablo Togni che ho incontrato per scrivere l’articolo. Ora hanno opere in tutto il mondo e questa è diventata la loro professione. Alcune loro cose si trovano anche in Ticino. Altre appena più lontano, a Lucerna o a Coira. Se vi va di scoprirli, questo è il loro sito: https://nevercrew.com.
L’immagine qui sopra non si riferisce però a loro. Quando mi sono messo a lavorare all’articolo, infatti, c’era un nuovo progetto in corso, voluto e finanziato dal Comune di Maggia, il quale ha chiamato KLER e SoFreeSo ‒ ovvero le sorelle Chiara e Sofia Frei, di Cevio ‒ per decorare le zone di raccolta delle differenti frazioni del nuovo comune post-aggregazione. E le due street artist hanno hanno pensato bene di recuperare a modo loro gli stemmi dei vecchi comuni, per farli rivivere.
]]>Annotatevi queste date: 1-5 maggio 2019. Sono quelle della 14a edizione di ChiassoLetteraria, festival internazionale di letteratura, alla cui programmazione collaboro dal 2010, mentre dal 2017 sono entrato a far parte del suo comitato d’organizzazione. Quest’anno, il fil rouge degli incontri sarà IL MONDO NUOVO, titolo italiano del celebre romanzo di Aldous Huxley Brave New World. Si tratterà insomma di fare il punto della situazione sul mondo nuovo (in transizione) in cui da qualche tempo ci troviamo a vivere, nonché su quello ancora diverso che ci aspetta in futuro.
Facendo parte del bellissimo gruppo di persone che per 9 mesi l’anno lavora un po’ nell’ombra per offrire a tutti 5 giorni di letture, discussioni ed eventi, è difficile segnalare un incontro in particolare, scartando inevitabilmente tutti gli altri. Diciamo che questa volta in particolare le gerarchie in campo impongono però una scelta scontata: venerdì 3 maggio, ad inaugurare il festival, ci sarà il premio Nobel per la letteratura 1986 Wole Soyinka. Ma noi andiamo evidentemente fieri di tutto il programma che siamo riusciti a mettere in piedi!
Già che siete sul mio sito, per informazione vi dico comunque che anch’io modererò una discussione. Si tratta di uno dei due incontri sulla “giovane letteratura svizzera”, quello di domenica. Alle 16h45 vi farò conoscere ‒ in francese e in italiano ‒ la romanda Elisa Shua Dusapin, autrice di Hiver à Sokcho (Zoé, 2016; Premio Robert Walser) e di Les Billes du Pachinko (Zoé 2018; Premio svizzero di letteratura), e il ticinese Alexandre Hmine, autore de La chiave nel latte (Gabriele Capelli Editore, 2018; Premio Studer/Ganz e Premio svizzero di letteratura).
Se vi interessa saperne di più, vi rimando al giornale del festival. I membri dell’associazione l’hanno già ricevuto direttamente a casa. Se non è il vostro caso, potete recuperarlo nei vari luoghi di cultura del cantone, dalle librerie alle biblioteche, passando da bar e teatri. La versione digitale è comunque disponibile online e la trovate in fondo a questo post.
Dentro c’è anche un mio articolo, che vi presenta brevemente tutti gli appuntamenti dedicati alla letteratura svizzera tranne uno (a voi scoprire quale). Si intitola Tracciare a penna i confini di un’isola e inizia così…
Nel suo libro di etnologia spiccia e pop intitolato Swiss Watching, pubblicato nel 2010, l’autore britannico Diccon Bewes descrive la Svizzera come una landlocked island, un’isola senza sbocchi sul mare.
Ironia della sorte, a distanza di nove anni, ora è proprio la Gran Bretagna a tentare disordinatamente di tornare a essere l’isola che è sempre stata, e che probabilmente si è sempre sentita di essere. Non è d’altronde un caso, se a generare i maggiori mal di pancia ai sudditi di sua maestà Elisabetta II sia proprio l’unico lembo di terra che costringe il Regno Unito a rimanere agganciato al resto del mondo. Avesse a disposizione una sega abbastanza grande, probabilmente non ci penserebbe due volte a recidere da sé la Repubblica d’Irlanda e a dirigersi verso il mare aperto, in solitaria.
Detto questo, la Svizzera non sarebbe di certo da meno. Ne avessimo la possibilità, chiederemmo volentieri a un gigante di sollevarci di un migliaio di metri verso il cielo, prendendo così tre piccioni con una fava:
1) le nuove pareti verticali ai nostri confini renderebbero il frontalierato uno sport per soli alpinisti esperti;
2) guarderemmo finalmente l’UE dall’alto in basso, a 360°;
3) e per finire, la nuova altitudine metterebbe una pezza a buona parte dei problemi legati al riscaldamento globale ‒ i turisti giungerebbero a frotte alle nostre stazioni sciistiche (con neve naturale assicurata per tutto l’inverno), mentre i ghiacciai smetterebbero finalmente di lacrimare.
Ma se nessun uomo ‒ o donna ‒ è un’isola, come scriveva John Donne, può esserlo un intero paese?
Quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a uno svizzero? Le risposte giuste potrebbe essere uno, due oppure anche tre. Sul primo scrittore svizzero a vincerlo ci sono pochi dubbi. Si tratta di Carl Spitteler, nato a Liestal nel 1845 e morto a Lucerna nel 1924. Nel 1920 fu insignito dell’ambìto premio, con effetto retroattivo per l’anno 1919. Se ne avete sentito parlare, insomma, è probabilmente per il fatto che quest’anno ne ricorre il 100° anniversario. Quanto alla sua opera, diciamo che non ha lasciato il segno che forse lui sperava lasciasse.
Nonostante tutto, questo non è un buon motivo per non leggerlo. Anzi, per gli italofoni ci sono tre ottimi motivi per scoprirlo o riscoprirlo. Il primo è il volume Il Gottardo, pubblicato da Armando Dadò Editore nel 2017, a cura di Mattia Mantovani. Il secondo è un progetto trilingue, appena pubblicato in italiano dalle Edizioni Casagrande: si tratta di Discorsi sulla neutralità, a cura di Camille Luscher, a cui hanno preso parte 8 scrttrici e scrittori svizzeri, fra cui i ticinesi Fabio Pusterla e Tommaso Soldini. Il terzo è la mia intervista allo storico Fabrizio Viscontini, apparsa sul numero 15 di Cooperazione, in cui si è provato a situare nel suo tempo lo scrittore basilese e la sua opera; e in cui si parla sia di Gottardo sia di neutralità.
Nel 1946, a vincerlo è invece Hermann Hesse. Di nazionalità tedesca, ottiene la cittadinanza svizzera nel 1923. Non so perché, ma a me viene da dire che si tratta di uno scrittore tedesco di nazionalità anche svizzera. Da svizzero, parlarne come di un premio Nobel svizzero mi sembra sempre una sorta di appropriazione indebita. Ciò non toglie che, oltre al fatto di essere sepolto a Montagnola e di aver vissuto a lungo in Ticino, Hesse fosse effettivamente di passaporto svizzero; e che lo fosse già quando vinse il Nobel. Insomma, un premio Nobel svizzero a tutti gli effetti.
Poi c’è Elias Canetti, il più vicino a noi dei tre dal punto di vista temporale, premio Nobel nel 1981. Canetti non è svizzero né di nascita né di passaporto. Però ha vissuto gli ultimi 20 anni a Zurigo, dove è sepolto. Il cimitero è lo stesso in cui riposa anche James Joyce.
]]>Che fine hanno fatto Colibrì e Tosti ‘sti testi? Forse te lo stavi chiedendo. O forse no. Magari nemmeno sai cosa sono. Perdonami, ma sai, ciò che facciamo in prima persona ci sembra sempre più importante di quanto in realtà non sia, soprattutto agli occhi degli altri. Ad ogni modo, sono entrambi momentaneamente in stand-by. A te decidere se vedere il bicchiere mezzo vuoto, mettendo l’accento su stand-by, oppure mezzo pieno, mettendolo invece su momentaneamente.
Fatto sta che l’unica puntata di uno dei due programmi andata in onda nel 2019 è stata quella di Tosti ‘sti testi dedicata allo splendido nuovo album di Zaz del 7 gennaio. E siamo alle porte di marzo.
Se a interessarti è solo la mia riflessione su quella maledizione chiamata perfezionismo, scorri più giù. Altrimenti continua la lettura!
Altrimenti, sappi che alla base di questo mio nuovo post c’è il fatto di aver scoperto di essere meno super-uomo di quanto credessi. O di non esserlo affatto, di essere anzi forse solo tre quarti di un uomo ordinario. Non so se a te è mai capitato, di provare una sensazione del genere; di riuscire, nonostante tutti i tuoi sforzi, a fare solo una frazione di quello che fanno le altre. Di essere una donna a metà. O a sette ottavi, non so. Come Money dei Pink Floyd o L’albero di Jovanotti.
Quel che è certo è che ho sopravvalutato le mie capacità organizzative, nonché il tempo realmente a mia disposizione; e soprattutto, ho sopravvalutato la mia capacità di erogare con costanza l’energia necessaria a far girare tutti e otto i motori dell’aereo pur essendo in riserva da un po’.
Ho fatto scalo. Poi mi sono detto che tanto valeva approfittarne per fare una revisione generale del velivolo. A quel punto mi sono ricordato di quanto odio gli aereoporti e che preferisco volare con le ali della fantasia, piuttosto che con quelle metalliche di un jet. Da lì in poi, tutto si confonde. Forse ho allargato le braccia. Ho cominciato a correre in giro dicendo di essere Jonathan Livingston. E mi hanno internato in qualche ospedale psichiatrico, bombardandomi di psicofarmaci.
Hai presente quando si hanno in testa tutte quelle cose belle e interessanti da portare avanti e solo 24 ore al giorno per farlo? Giusto per rendere la proporzione della tragicità di questo nostro limite ‒ mio, ma ne sono certo, anche tuo ‒ sappi che sul mio computer c’è un file in cui inserisco di volta in volta ogni libro che mi sembrerebbe interessante leggere ma che non ho tempo di leggere adesso. Oggi ha raggiunto le 8 pagine fitte-fitte. Ultimi libri inseriti: Girls Are Coming Out of the Woods di Tishani Doshi e Nafasam di Chirine Sheybani. E considera che in questa lista non entrano i libri che riesco effettivamente a leggere. Né quelli che effettivamente compro, i quali di regola sono oltretutto più di quelli che leggo. E da bravo figlio di bibliotecario, parte dei libri che leggo in realtà non li possiedo nemmeno: li prendo in prestito. Senza dimenticare che mi sto limitando a una sola delle tante cose che mi piacerebbe fare prima di morire, ovvero leggere tutti i libri interessanti che ci sono in circolazione.
Insomma, non so a te, ma a me piace anche il mio lavoro di giornalista a Cooperazione, mi piace organizzare Chiassoletteraria, mi piace condurre programmi radiofonici per Radio Gwendalyn e ‒ di tanto in tanto ‒ mi piace mangiare un gelato. (Per inciso, io sono uno di quelli che i gelati li mangia, non li lecca. Il che, sull’arco di una vita, mi fa risparmiare parecchio tempo, perché lo finisco prima. Però li mangio volentieri anche d’inverno, quindi è un’attività che porto avanti con passione lungo tutto l’arco dell’anno, senza pause stagionali. Argh!)
A fregarmi c’è poi la voglia di scrivere ‒ o meglio, la necessità di dire e raccontare cose per iscritto. Non sai il piacere che sto provando adesso, tornando a scriverti una nuova riflessione alla seconda persona, dopo mesi che praticamente non toccavo il mio sito, se non per segnalare la pubblicazione di questo o quel podacst o di un articolo.
Sia però chiaro che questa situazione non dipende esclusivamente dalla mia difficoltà a trattenere le dita quando stanno sopra a una tastiera. Recentemente sono stato invitato a tenere un mini-discorso, seguito da una lettura di alcuni miei testi, per un’occasione importante. Purtroppo è un evento privato e non ti posso invitare. Se te lo dico non è comunque per farti rosicare. Il fatto è che è stata l’occasione di riprendere in mano alcuni testi scritti negli anni scorsi, per rivederli, farne una scelta. E tutto questo mi ha fatto rendere conto di volermi dovermi ritagliare più tempo per scrivere nuove cose, e portare per esempio finalmente a termine il romanzo che in realtà ho portato a termine già tempo fa, ma che― be’, sai com’è: è ancora perfettibile.
Ed è qui che entra il gioco il mio più grande nemico: il perfezionismo.
Che fosse durante la riscrittura del romanzo, la scrittura di un breve racconto, il mio lavoro a Cooperazione o il dietro le quinte dei due programmi radiofonici di cui stavo parlando prima di divagare, nelle ultime settimane ho avuto l’ennesima e l’emmesima conferma del mio perfezionismo latente ‒ latente è chiaramente un eufemismo, a tratti assomiglia più all’insegna luminosa di un casinò di Las Vegas che non a qualcosa che riesco anche solo vagamente a nascondere in tasca.
Piuttosto che buttar là le cose o farle male, non le faccio. Mi fermo. Mi prendo il tempo ‒ o perlomeno questo è quello che mi sento dire a me stesso quando lo faccio: mi prendo il tempo per migliorare, per mettere a posto.
(A scanso di equivoci, una piccola parentesi: nonostante la comune radice del termine, il perfezionismo, come concetto, è decisamente più vicino all’accanimento terapeutico che non alla perfezione. Ma si tratta di un accanimento terapeutico montato al contrario, che impedisce di vivere invece che di morire. Un po’ come se Victor Frankenstein, dopo aver dato la vita alla sua creatura, ogni volta che il mostro provasse ad alzarsi gli dicesse: «Stai giù, non ho ancora finito!»)
Se non te ne sei ancora resa conto, è bene farlo subito: le nostre creature, qualsiasi forma esse abbiano, sono perfettamente in grado di camminare da sole. C’è sempre tempo per raddrizzare un colletto storto o allacciare un bottone in più come un padre premuroso. Ma è solo lasciandole correre che possiamo incitarle come madri scalmanate da bordo campo.
«Let it go», come canta Elsa in Frozen. «Let the storm rage on», fino a che «that perfect girl is gone».
E quindi nulla. Dopo essermi reso conto che non riesco a fare tutto, ma che riuscirei a fare molto di più se solo riuscissi a lasciare un po’ meno spazio a questo maledetto perfezionismo che mi perseguita, ho deciso per l’ennesima volta di provare a limitarlo. In fondo non ci vuole un super-uomo per fare in modo che tutti e otto i motori dell’aereo funzionino a pieno regime. Ne basta uno solo, ma intero, che non lasci frazioni di sé stesso al perfezionismo. O perlomeno non un intero quarto. Forse un ottavo. Un sedicesimo. Un duecentocinquantaseiesimo di me. E non provare a fare tutto da solo. Essere interi è importante, ma per i super-uomini e le super-donne non c’è spazio. Ne occupano troppo, quelli che vogliono fare tutto da soli. Meglio fare poco, ma dando comunque il proprio contributo a ognuno degli otto motori dell’aereo.
Colibrì e Tosti ‘sti testi torneranno. Spero molto presto. Se ti mancano, per il momento puoi comunque riascoltare le vecchie puntate. Il vantaggio di internet è che quelle restano. Nonostante il perfezionismo, che vorrebbe sistemare quella frase balbettata, quell’opinione mal espressa, quel colpo di tosse microfoni aperti.
Qui tutti i podcast di Tosti ‘sti testi: https://www.radiogwen.ch/category/rubriche-musicali/tosti-sti-testi/
Qui quelli di Colibrì: https://www.radiogwen.ch/category/rubriche-musicali/colibri/
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