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L’RBUI e il Daniel Blake di Ken Loach

Tempo di lettura: circa 8’30”. /// Un punto di vista e una segnalazione. ///

I, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach, è una feroce denuncia del nostro sistema sociale, che disumanizza, umilia e strappa la dignità di dosso alle persone in difficoltà, invece di aiutarle. Ed è un’illustrazione perfetta del perché è necessario istituire al più presto un Reddito di Base Universale e Incondizionato in Europa.


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L’RBUI e il Daniel Blake di Ken Loach


Se avete avuto l’occasione di vedere l’ultimo film di Ken Loach, sapete di cosa sto parlando. Ma anche se non l’avete visto, probabilmente ne avete sentito parlare. Ha vinto la palma d’oro al Festival di Cannes, la scorsa primavera. Ha vinto il premio del pubblico all’ultimo Festival del Film Locarno. Ma soprattutto ‒ come del resto è spesso il caso, quando si tratta di un film di Ken Loach ‒ I, Daniel Blake affronta un tema talmente attuale e importante ‒ un tema che ci riguarda tutti, perché tocca un nervo scoperto della nostra società ‒ che pare improbabile non sentire la necessità di parlarne.

Daniel Blake ha 59 anni ed è falegname. O perlomeno, lo era. Un recente infarto gli ha infatti fatto perdere la possibilità di lavorare, la possibilità stessa di essere, sostanzialmente, ciò che è stato negli ultimi 40 anni della sua vita: un falegname.

Il film lo segue quindi nei suoi tentativi di districarsi fra la burocrazia degli aiuti sociali dell’Inghilterra contemporanea, una burocrazia disumanizzante, la quale, più che aiutare le persone che si trovano a vivere una situazione difficile, come capita a lui, sembra volergli spremere poco a poco le ultime gocce di dignità che ancora riescono a tenersi cucite addosso.

Che abbiate o non abbiate visto il film, poco importa. D’altra parte, I, Daniel Blake non è ancora uscito nelle sale. Farà infatti il suo debutto al cinema solo il 21 ottobre, in Gran Bretagna come in Italia, distribuito da Cinema srl. Mentre in Svizzera, per chi volesse vederlo in lingua originale, Film Coopi Zürich lo distribuirà a partire dal 26 ottobre.

Io ho solo avuto la fortuna di vederlo in Piazza Grande a Locarno, insieme a tante altre persone che volevano rendere omaggio a un grande regista, vedere questa sua ultima fatica e ringraziarlo per non essersi fermato, per continuare a fare film come questo.

E quello che segue è ciò che ho da dire a proposito.


Ae Fond Kiss

Per certi versi, I, Daniel Blake mi ha ricordato un altro film di Ken Loach che ho apprezzato tantissimo: Ae Fond Kiss, del 2004.

ae-fond-kissQuel film parlava d’altro: d’amore, di religione, della nostra società multiculturale e multiconfessionale, temi che nel 2004 erano se possibile ancora più d’attualità rispetto a oggi. Ma anche quel film era ambientato nel nord della Gran Bretagna. E credo che non sia un caso. La Gran Bretagna è infatti un’Italia al contrario, se così si può dire. Il calore umano è più di casa nello sfavorito nord, dove i legami sociali sono generalmente più forti rispetto al sud dell’isola.

In Ae Fond Kiss, la protagonista femminile è Roisin, un’insegnante di musica. Irlandese e cattolica, insegna in una scuola cattolica della protestante Scozia, a Glasgow. Si innamora però di Casim, scozzese musulmano di origine pakistana. E, inutile dirlo, le cose, fra i due, non saranno semplici.

Ma il personaggio di Ae Fond Kiss che mi ha ricordato Daniel Blake è un altro ancora. Tariq, padre di Casim, nella sua vita ha fatto tutto per bene, non ha nulla da rimproverarsi rispetto a ciò che la sua comunità, i suoi amici, i suoi famigliari si aspettavano da lui. Anche a livello personale, è fuggito da una situazione insostenibile nel suo Paese d’origine ed è riuscito a creare una famiglia in Gran Bretagna, a costruire la propria casa. Ha poi trovato un marito per la maggiore dei suoi tre figli, la quale è contenta della propria situazione, fiera delle proprie origini. Ma sono proprio gli altri due figli a mettere qualche granello di sabbia nel perfetto ingranaggio che ha costruito negli anni.

La figlia più giovane, da poco uscita dall’adolescenza e con la scelta degli studi universitari all’orizzonte, si mette contro il suo volere, sostenendo con decisione la scelta di partire lontano dalla famiglia, per inseguire i propri sogni e studiare giornalismo. Mentre Casim, il protagonista maschile del film, il suo unico figlio maschio, da una parte si sente sinceramente in dovere di rispettare il volere del padre, così come le tradizioni della sua cultura d’appartenenza; ma si innamora di Roisin, proprio mentre la famiglia ha organizzato un incontro con la sua futura moglie pakistana.

Anche Daniel Blake ha fatto tutto giusto. Ha lavorato onestamente per tutta la vita, pagando tasse e contributi. Si è occupato della moglie malata, quando si è trovato a doverle stare accanto. E adesso, a causa di un infarto, si trova con la voglia di lavorare, di continuare a contribuire alla società, eppure nell’impossibilità di farlo. E il sistema sociale inglese, invece di aiutarlo, lo abbandona a se stesso. Peggio, lo umilia proprio quando si trova costretto a chiedere aiuto.


I, Daniel Blake

Il parallelo fra i due film si ferma qui. Ae Fond Kiss era una riflessione sulla nostra società multiculturale, sulle sue potenzialità, ma anche sulle difficoltà che genera, in particolare per chi ha difficoltà ad adattarsi al cambiamento in atto. I, Daniel Blake è invece una denuncia dura, chiara, netta del sistema sociale degli Stati europei contemporanei.

Ed è proprio qui che volevo arrivare.

Sebbene il Daniel Blake del film sia chiaramente un personaggio di finzione, la sceneggiatura del fedele Paul Laverty è basata su una ricerca approfondita e una grande quantità di testimonianze. In un’intervista a Marco Zucchi, Ken Loach ha persino lasciato intuire che le testimonianze più dure non hanno potuto trovare spazio nel film, perché sarebbero risultate inverosimili, a tal punto erano estreme. E dire che già nel film così com’è presentato ci sono alcune scene che fanno decisamente stare male, per come il sistema sociale tratta i protagonisti.

Le più forti riguardano sicuramente Katie, la madre single di cui Daniel diventa amico. Senza il bisogno di scene estreme, Paul Laverty costruisce un crescendo narrativo in cui Katie si vede costretta a fare i conti con la propria umiliazione più e più volte lungo l’arco narrativo, facendo sì che lo spettatore non sia scioccato da un episodio in particolare ma che, vedendo aggiungersi umiliazione all’umiliazione, alla fine provi repulsione per chi ha permesso che Katie si trovi a vivere quell’ennesima situazione insostenibile.

L’apice viene però raggiunto quando il sistema sociale, che a poco a poco assurge a reale nemesi dei personaggi a cui ci siamo legati, sembra costringere alla resa Daniel, che per tutto il film pare sempre indignato ma ottimista; quando l’aiuto sociale, così come è pensato e costruito, rischia davvero di riservargli la sorte più terribile di tutte ‒ peggiore anche che togliere il sostentamento minimo a quelle persone che, seguendo il buonsenso, ne avrebbero pieno diritto: distrugge i legami sociali che fino a lì l’hanno sostenuto nonostante tutto.

Ma cosa c’entra il Reddito di Base Universale e Incondizionato con tutto questo?


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Un cambiamento è necessario

Come detto, quelle dipinte da Ken Loach sono tutto tranne situazioni estreme. Dietro alle storie di finzione di Daniel e Katie esistono migliaia di storie reali, in giro per i vari Paesi europei, Svizzera compresa. E allora cosa facciamo? Continuaimo imperterriti con lo stesso sistema, magari tagliando qua e là qualche utleriore servizio, o fondo?

Lo scorso mese di maggio, in un Non una recensione diviso in quattro parti (1, 2, 3, 4), ho scritto parecchio riguardo all’idea di un Reddito di Base Universale e Incondizionato. In particolare, nella seconda parte di quell’articolo, mi sono soffermato sulle ragioni della necessità di istituire un RBUI il più presto possibile. Ma questo film fa qualcosa di molto più potente, che non spiegarci quelle ragioni. Ce le mette davanti agli occhi.

Il nostro sistema sociale costa. Molto. Eppure quei molti soldi pubblici sono spesi male. E vanno sempre più a finanziare il sistema stesso ‒ e la sua gigantesca burocrazia ‒ invece che ad aiutare quelle persone che dovrebbe aiutare. D’altronde, riferendosi al film, persino Mark Littlewood, direttore generale dell’Institute of Economic Affairs, un think tank basato a Westminster, il quale promuove l’idea di un libero mercato a livello economico, non proprio un sindacalista attento a chi vive ai margini, afferma: «To my surprise, I’m pretty sympathetic to the narrative [of the film], that seems to be saying that the mass-bureaucratic welfare state is a colossal misuse of resources», mi sono io stesso sorpreso, nel trovarmi a condividere ciò che il filo narrativo del film sembra dire, ovvero che quella montagna di burocrazia che è lo stato sociale è un colossale spreco di risorse, «it does not get the money to where it is needed», non porta i soldi là dove ce n’è bisogno.

Sempre Littlewood aggiunge poi: «Although [Loach]’s telling it at a micro level, my macroeconomic analysis of it is: Oh my God, that’s the way we spend £240bn a year on poverty relief?», sebbene Loach lo racconti su piccola scala, la mia analisi macroeconomica è questa: o mio Dio, questo è il modo in cui spendiamo 240 milioni di sterline per venire in aiuto ai più demuniti?

Poco importa il vostro credo politico, dovremmo tutti indignarci almeno due volte.

La prima, per come i Daniel Blake del mondo sono trattati dal nostro sistema sociale. Perché un infarto ‒ o un incidente o la perdita del lavoro per motivi indipendenti da noi ‒ può capitare a chiunque. Perché anche se non capita a noi, potrebbe capitare a qualcuno che conosciamo. O, più semplicemente, a un altro essere umano, che ha lavorato duramente per tutta la vita. Oppure a un giovane che, nonostante tutta la buona volontà, non riesce a entrare in questo mercato del lavoro sempre più esclusivo. Ma forse anche solo perché storie come questa, nella realtà, non dovrebbero esistere. Punto.

La seconda volta, invece, dovremmo indignarci perché i soldi pubblici ‒ i nostri soldi ‒ non sono spesi per aiutare le persone in difficoltà, bensì per disumanizzarle, per umiliarle, per stappare loro di dosso la dignità. A volte in maniera atroce, come nelle situazioni raccontate dal film. Altre in maniera meno dura, ma non per questo meno umiliante.

Non sono certo che l’istituzione di un Reddito di Base Universale e Incondizionato sia in assoluto la migliore soluzione. Si tratta però di una proposta molto interessante, la cui efficacia dipenderà molto anche da come si deciderà di metterla in pratica. Ciò che è certo è che, come ho provato a spiegare in precedenza, il nostro sistema sociale non è più attuale ed è ormai diventato terribilmente inefficace, oltre che inefficiente. Un cambiamento è necessario.

Chi si indigna con me e Ken Loach?

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