Tempo di lettura: circa 2’00”. /// Un mini-monologo di Colibrì. ///
Il mini-monologo della settima puntata di Colibrì, i libri per becco di chi li legge. Si è parlato di utopie, distopie e idìllio. E prendendo spunto da un progetto nato e morto a Torino nel 2011, in questo breve testo mi chiedo se l’utopia, più che un non-luogo, non sia in realtà più simile a uno yogurt.
E se l’utopia fosse uno yogurt?
Torino, 2011. Alcuni studenti d’architettura scoprono che una vecchia fabbrica sarebbe stata abbattuta di lì a sei mesi, per far spazio a un quartiere residenziale di loft di lusso. Prendono allora contatto con il proprietario del sedime. E con il suo accordo, trasformano per sei mesi la ex-fabbrica in un luogo d’espressione.
A spingerli non c’è un’idea chiara. L’unica cosa che sanno con certezza è che vogliono sfruttare quell’occasione unica: poter usufruire a piacimento di uno spazio, sapendo che nel giro di qualche mese avrebbe semplicemente smesso di esistere. Hanno così cominciato a spargere la voce fra i writer e gli street artist della città. Le pareti si sono via via riempite di immagini e colori. Col passare delle settimane, a Torino sono cominciati ad arrivare artisti anche da Bologna, poi da altre Regioni d’Italia, poi da tutta Europa. Nel frattempo, anche molti torinesi che con quel mondo avevano solo marginalmente a che fare hanno cominciato a frequentare il luogo: skater, sì, ma anche famiglie con bambini e poi, in via ufficiale, rappresentanti del Comune, che in quel progetto hanno visto un esempio di come quel tipo di cultura ‒ che spesso viaggia sul filo fra legalità e illegalità ‒ può esprimersi in modo positivo per tutti.
Poi i sei mesi sono passati. Le chiavi ‒ sia fisiche che metaforiche ‒ di quel luogo sono state riconsegnate ai legittimi proprietari. L’inizio dei lavori è tardato ad arrivare. Altre persone hanno occupato abusivamente quello spazio. La polizia è dovuta intervenire. Il tutto si è risolto come sempre, fra gli scontri, le recriminazioni e le polemiche. E la ex-fabbrica è infine effettivamente diventata un quartiere di loft di lusso, come era previsto sin dall’inizio.
Eppure per un attimo, per il breve volgere di quei sei mesi, una piccola utopia si è effettivamente realizzata. E se è stato possibile, forse è perché l’utopia, al contrario di quello che solitamente pensiamo, non è un luogo ‒ o un non-luogo, per riprendere l’etimologia della parola. Forse l’utopia non è definita da limiti geografici, linee tracciate su una carta topografica o sui piani dell’ufficio del catasto. Forse, i limiti che definiscono i contorni dell’utopia sono temporali, una sorta di conto alla rovescia. Forse l’utopia è uno yogurt, fermenti lattici con una data di scadenza.
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