Tempo di lettura: circa 8’00”. /// Racconto. ///
Quattro amici si ritrovano a cena e iniziano a discutere di traslochi e di regole di vita. Fra una crêpe e l’altra, però, la tensione tra Sonia e Alice sale, nonostante i tentativi di Michele di stemperare gli animi, finché un commento inaspettato non costringe tutti a riflettere su se stessi e sul proprio passato.
Ripubblico qui il racconto che ha ricevuto una menzione al Premio Dialogare 2015, il cui tema era ‘Cambiare si può’. Sul sito dell’associazione è anche possibile leggere il bellissimo racconto vincitore ‒ Sabina e Anna di Francesca Maria Minchiotti ‒ nonché gli altri racconti menzionati ‒ La donna di quel quadro di Degas di Lia Galli e La dama dei sacchetti di Manuela Bonfanti Bozzini (qui il suo blog).
La quarta regola di ogni trasloco
Prima regola: se non ti ricordavi di averlo, è da buttare. Alice non sembra convinta, ma non riuscirà a farmi cambiare idea neppure se mi guarda così per tutta la cena.
Il pallone da basket, tanto per fare un esempio, sarà dal liceo che non lo tocco. E che dire del grembiule che avevo decorato alle elementari? Dispiace buttarlo, certo, ma non mi ricordavo della sua esistenza; e le regole sono regole. D’altra parte, se non ti ricordi di possedere un oggetto, puoi ancora considerarlo un ricordo?
Alice scuote la testa, non è chiaro se per darmi torto o se per rispondere di no alla mia domanda retorica. In ogni caso, io preferisco tenermi stretta i ricordi veri, quelli che ti tornano in mente di tanto in tanto, senza bisogno di oggetti a rammentarti chissà quale impresa od occasione speciale. Cosa me ne faccio di un grembiule che non mi ha mai assistito nel cucinare un dolce, mai un biscotto di Natale o la torta per la festa di compleanno di un’amica importante?
Michele sorride. Gli è sicuramente tornata in mente quella foto in cui indosso quello stesso grembiule, con un sorriso pieno di farina e le treccine stile Pippi Calzelunghe. Ma lui non c’era ancora, nella mia vita. Non può provare che non sia un fotomontaggio.
Regola numero due: se puoi ricomprarlo, regalalo a qualcuno che ne ha più bisogno di te o che non se lo può permettere. La verità è che l’unico modo per sapere se una cosa ti è davvero necessaria è provare a farne a meno. Michele ha fatto un po’ fatica ad accettarla, questa regola, lui che ha sempre riparato tutto, rimesso in sesto qualsiasi cosa, finché non rendeva definitivamente l’anima. Ma un trasloco è diverso, cambia le regole. Soprattutto se, come noi, lo si interpreta come un viaggio verso l’essenziale, la casa base da cui ripartire insieme.
Ed arriviamo così alla terza regola, definita in corso d’opera: non esitare a buttare o a dare via qualcosa. Un trasloco non deve ridursi al tentativo di mettere tutto ciò che hai in una nuova casa. Bisogna piuttosto entrare in quella nuova casa e decidere a poco a poco cosa metterci dentro, lentamente, prendendoti il tempo di osservare, di capire i tuoi desideri e i tuoi veri bisogni.
Non appena finisco di spiegare le nostre tre regole, Michele mi guarda e sorride. Mi ha sempre considerata una pazza con la testa ben piantata sulle spalle, ed è quello che sta pensando anche in questo momento. In fondo, gli ho sempre dimostrato di non prendere decisioni a caso. Semplicemente, di seguire logiche non convenzionali.
Alice però non è convinta. La prima regola in particolare non la convince. Siamo seduti al tavolo del ristorante in attesa delle crêpe. E Alice scuote la testa, di nuovo. Michele sta per darle corda, ma lo blocco subito.
«I ricordi sono nella nostra testa, non fra la nostra roba», dico alla platea che, oltre ad Alice e Michele, consiste nel solo Alberto, che tiene la mano di Alice e non sa da che parte stare, se contro Alice, solo per il gusto di farla innervosire, oppure se lasciar trasparire anche lui la propria perplessità riguardo alla nostra regola numero uno: se non ti ricordavi di averla, una cosa la si butta.
«Io, quando trasloco», esordisce infine Alice, «non riesco a buttare via niente. E poi, il bello sta proprio nel ritrovare qualcosa che non ti ricordavi più di avere, no?» Cerca allora comprensione negli sguardi di tutti, trovando consenso soprattutto in quello di Michele, il quale si gira verso di me e mi sfida a controbattere.
«Certo», dico io, deglutendo un sorso di sidro bretone. «Non metto in dubbio che sia un momento carico di emozioni — ritrovare qualcosa che ti eri dimenticata di avere, intendo. Ma questo non cambia nulla: se non te ne ricordi, non è un ricordo; non può essere un ricordo. È solo una reliquia. Ci puoi costruire una chiesa, attorno a una reliquia, non una nuova casa. E io non ho — noi non abbiamo avuto alcun dubbio a riguardo: le abbiamo buttate via tutte.»
Michele alza il calice e propone di brindare alle reliquie. Alberto esita, sembra a disagio. Io seguo Michele, alzando il mio calice verso il lampadario, ridendo e scusandomi per aver bevuto come mio solito prima del brindisi. Alice prende il braccio di Alberto e gli dice piano, non proprio sussurrandogli all’orecchio ma quasi, che le parole “chiesa” e “reliquia” non sono per forza da prendere alla lettera. Che non si offende, il Signore, se brindiamo alle reliquie. Michele comunque si scusa. E propone un brindisi alternativo.
«Alle cose dimenticate, e a quelle che ci ricordiamo!», dice.
«Alle cose dimenticate. E a quelle che ci ricordiamo», ripetiamo in coro, ma più lentamente, cercando lo sguardo di tutti.
La prima crêpe a venire servita è la mia, ai porri e allo zenzero. Alberto è l’unico ad averne chiesta una non presente sulla carta, al prosciutto e al formaggio, per assecondare i suoi gusti poco inclini alle novità — o alle cose strane, come dice lui. Michele invece è partito da una al cioccolato fondente, con l’intenzione di passare al salato solo in un secondo tempo. Alice adora il formaggio, e non ha resistito al brie e pere.
«Quella cosa delle reliquie», riprende Alice, aggiudicandosi per un attimo la nostra completa attenzione. Le crêpe sono davvero squisite, anche mischiando i miei porri col cioccolato di Michele, e ci si è buttati a capofitto. «Cioè, quello che intendo dire è che… Le “reliquie”, come le chiami tu — teniamo certi oggetti proprio perché ci ricordano cose che ci sono successe, e che altrimenti avremmo dimenticato. È proprio per quello che li teniamo.»
«Hmm… non sciò.» Ogni tanto dovrei ricordarmi di finire di masticare, prima di prendere la parola. «In un certo senso credo che tu abbia ragione.»
«Io ho sempre ragione, Sonia.»
«Non esattamente. Tu hai sempre ragione tranne quando ho ragione io.»
Michele mi appoggia una mano sulla coscia. «Ragazze, chiedo dell’altro sidro? Alberto?» Alberto fa un cenno con la testa. Difficile dire se sia un sì oppure un no.
«Quello che voglio dire —», riprendo io. «Ci sono cose di cui ti ricorderai sempre, senza bisogno di un oggetto materiale che te le ricordi. Ma quel grembiule disegnato alle elementari, a me non ricorda nulla di specifico. Nulla di —»
«Ti ricorda il passato. Il passato in generale, intendo» dice Michele. «Il problema delle reliquie è che non aiutano a ricordare davvero: generano solo uno stato di malinconia.»
«Esatto.» Deglutisco più rumorosamente di quanto ne abbia l’intenzione. «È quello che volevo dire io», aggiungo, rischiando di soffocare. «Nessun ricordo specifico.»
«Io non sono d’accordo.» Quando s’innervosisce, Alice raddrizza sempre la schiena, apparendo per un attimo più alta di qualche centimetro. «E poi la malinconia non è per forza qualcosa di negativo.»
Michele precisa che non intendeva dire quello. «Dico solo che non abbiamo bisogno di oggetti per ricordarci di aver avuto un passato, di aver frequentato una certa scuola, di essere stati nel tal posto. Ci basta —»
«Ma possono essere utili», dice Alice.
«Forse. Ma non sono essenziali», rincalza Michele. «Le reliquie non sono parte di ciò che sei, di ciò che ti definisce; sono solo parte di un passato generico.»
«Chiamiamole cianfrusaglie, invece di reliquie», propongo io. «Così è più chiaro.»
All’associazione della parola “cianfrusaglie” con la parola “reliquie”, Alberto trasalisce. Ma io non sono Michele, non ci penso a scusarmi.
«Sì, ma se le chiami “cianfrusaglie” hai già deciso che sono roba inutile.»
«Ma sono roba inutile!»
«E invece ti dico che non lo sono.»
«A cosa servono? Dimmi.»
«A non dimenticarsi le cose. Cose importanti.»
«Credo di aver voglia di un altro bicchiere di sidro», dice Michele.
«Fammi un esempio», torno a sfidare Alice.
Michele fa un cenno alla cameriera. Io continuo a fissare Alice, in attesa.
«Non so, per esempio…»
«Sì…?»
«Ma qualsiasi cosa, Sonia! Qualsiasi cosa che abbia un significato per te, ma non necessariamente per gli altri.»
«Per esempio?»
«Sai cosa? Devo andare in bagno. Ma ti porterò della carta igienica in ricordo di questa serata.» E mi caccia fuori la lingua, come fa sempre quando ha finito gli argomenti. Alberto non riesce a nascondere un ghigno. Alice non lo vede. O forse non lo vuole guardare, preferendo mantenere intatta l’illusione di avere ancora un alleato.
Dopo poco arrivano il sidro e il secondo giro di crêpe. Approfittiamo del momento per gustarcele. Il posto è davvero carino, con le sue candele accese e l’abbinamento ben studiato fra la grafica dei menu e l’arredamento. Alice torna dalla visita al bagno.
«Sai cosa?», dice. «Credo che molte di queste “cianfrusaglie”, più che ricordarci chi siamo stati, ci ricordano chi avremmo voluto essere.» Tento di capire. «È per questo che sono importanti: ci ricordano qualcosa che non esiste, qualcosa che non si è mai realizzato», aggiunge.
Ci prendiamo tutti il tempo di riflettere e di mangiare e di sorseggiare un po’ di quest’ottimo sidro. Michele ragiona sulla necessità che ci sia qualcosa di materiale a ricordarci qualcosa che materiale non è. Io ripenso a quel pallone da basket e al fatto che sognassi di giocare nell’NBA, prima di rendermi conto che gli ormoni mi stavano trasformando in una donna, e che le donne non giocano nell’NBA. Poi Alberto ci sorprende tutti, prendendo per la prima volta la parola.
«Secondo me», dice, «dovreste creare una quarta regola: se ti ricorda ciò che desideravi, invece di ciò che ancora desideri, allora devi buttarlo via. La vita è troppo breve per coniugare i desideri al passato.»
Le forchette rimangono sospese a metà strada fra i nostri piatti e le nostre bocche semiaperte. Forse è la sorpresa di sentire per la prima volta la voce di Alberto. Più probabilmente, in un istante, ci rendiamo tutti conto della quantità di desideri coniugati al passato che ci portiamo dentro. E del fatto che nessuno di noi sembra pronto a buttarli via, o a regalarli ad un’altra persona.
Il luogo che ha ispirato questo racconto è l’Ostello Cresciano, dove ogni giovedì sera, nella stagione invernale, propongono una serata crêpes à discrétion; e dove in generale si mangia molto bene! (NB: Non ho nessun legame commerciale con l’Ostello Cresciano, solo la voglia di far conoscere un posto che merita di essere conosciuto.)
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