Tempo di lettura: circa 8’00”. /// Un racconto della serie Il giallo è servito. ///
Il commissario e tutta quanta la polizia sono in alto mare con le indagini. Ma la cameriera, pur essendo la sospettata numero 2, ha avuto un’intuizione. O forse si è trattato solo di un abbaglio…
L’andirivieni del Diamante
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Avevo avuto un’intuizione. Mi ero chiesta com’era stato possibile non vedere l’assassino, nel mio continuo andirivieni fra la cucina, la sala da pranzo e il bar.
Chiunque avesse ucciso Ezechiele Bernasconi l’aveva fatto in cucina. E aveva avuto il tempo di spostare il corpo dal pavimento della cucina a quello della cella frigorifera, senza contare che aveva probabilmente anche sostituito l’arma del delitto con un altro coltello, su cui c’erano solo le impronte di Ezechiele e le mie.
Per quanto io non mi sia accorta di nulla, qualcosa ‒ qualcuno ‒ lo dovevo per forza aver visto. Un’ombra. Un flash. Qualcosa. Qualcuno.
Quando il commissario mi aveva chiamato per la terza volta, gli avevo quindi detto di aver visto l’assassino. Non era completamente falso. Ma si trattava più di un ragionamento logico che non di una reale presa di coscienza. Così, quando mi sono ritrovata alla centrale di polizia, con il commissario che mi aveva garantito che non mi avrebbero arrestata nonostante le mie impronte sul coltello, non avevo realmente un’informazione precisa da dare loro, come il commissario e i suoi colleghi si aspettavano.
Nella stanza degli interrogatori, il commissario ha detto allora, ti ascoltiamo. Io ho detto non ne sono sicura. Ma devo per forza aver visto l’assassino. Un’ombra. Un flash. Qualcosa.
Il collega del commissario ha fatto una faccia tipo che non si fidava. Ha guardato prima me, poi il commissario, poi di nuovo me. E ha detto quindi non hai visto l’assassino? Io ho detto è probabile. Nel senso: è statisticamente probabile che l’abbia visto, anche se non me ne sono accorta.
Il collega del commissario si è messo a ridere. Io mi sono fatta seria. Il commissario ha detto senti. Così, semplicemente per evitare che il suo collega prendesse la parola per attaccarmi frontalmente. E per evitare a me di reagire in un modo del quale mi sarei pentita. Ma dopo quel senti, in realtà non aveva niente da aggiungere.
Il collega del commissario mi ha chiesto quale coltello hai usato? Io ho detto in che senso, quale coltello? Lui ha detto quello che hai usato per ucciderlo. E io che non avevo ucciso nessuno. Lui ha continuato spiega un po’ come l’hai maneggiato. L’hai ucciso in cucina o era ancora vivo, quando l’hai trascinato nella cella frigorifera? Com’era il vostro rapporto di lavoro? E a livello personale? Ha mai provato a estorcerti denaro? A ricattarti? Hai ma pensato di ucciderlo, di farlo fuori? Cosa pensi di Ezechiele Bernasconi? Sei triste per la sua scomparsa? O non ti interessa? Come hai raccontato ciò che è successo alla tua famiglia?
Il commissario si è alzato, ha gettato un sguardo al suo collega ed è uscito dalla stanza. Non mi sono mai sentita più sola in vita mia. Ma perlomeno, il suo collega ha smesso di farmi domande.
Poi c’è stato tanto silenzio. Poche parole. Infine, senza spiegarmi nulla, il commissario mi ha accompagnata di nuovo al Diamante, all’osteria dove tutto era successo.
Il commissario si è seduto a un tavolo. E mi ha chiesto di portargli una gazzosa al mandarino. Io ho detto sarà calda, è tutto spento da settimane. Lui ha detto va bene una gazzosa al mandarino calda. Prendi qualcosa anche per te, se ti va. E siediti qui. Devo chiederti ancora qualcosa.
Sono andata a prendere una gazzosa al mandarino calda. E un bicchiere d’acqua del rubinetto per me. Per un po’, il commissario non ha detto nulla né ha versato o bevuto la sua gazzosa. Si guardava in giro. Si massaggiava la barba. Non mi guardava mai negli occhi.
Hai voglia di raccontarmi di nuovo tutto dall’inizio? È con queste parole che ha deciso di rompere il suo silenzio. Io ho detto voglia no, ma se ti può aiutare a tirarmi fuori dai guai e a convincere il tuo collega che non sono stata io.
Il commissario non ha detto nulla. Non ha fatto nessun cenno, nemmeno una smorfia.
Credo sia stato il suo modo di dirmi che la palla era nel mio campo. Che potevo scegliere di rimandarla di là oppure guardarla sfilare e concedere un punto all’avversario nel game decisivo. Ho deciso di ributtargliela di là.
Ho ripercorso minuziosamente tutto ciò che gli avevo già raccontato. Ed è in quel momento che mi è venuta in mente l’ombra che cercavo. La traccia, la scia, quel qualcosa a cui appigliarmi per farmi definitivamente scagionare.
Si trattava di due ombre, in effetti. L’ultima volta che avevo visto Ezechiele vivo, uscendo dalla cucina mi sono scontrata con la mamma della dolce famigliola, che aveva accompagnato il figlio più piccolo in bagno. O che lo aspettava fuori, non ricordo bene. Poi sono andata a portare i due piatti di risotto a Normanno e Martina. Ma Normanno non c’era, al tavolo. Non ho chiesto dove fosse, perché nel frattempo era arrivato un altro cliente, un operaio, che chiedeva la mia attenzione.
Ero poi tornata in cucina per prendere le ordinazioni dei tre assicuratori in giacca e cravatta e avevo visto Ezechiele steso sul pavimento, anche se non mi ero accorta subito che fosse morto. O che fosse stato accoltellato. Ma sono sicura di quest’altra cosa. Quando sono andata al bar a prendere la gazzosa che mi aveva chiesto l’operaio, rendendomi conto che non gli avevo chiesto se la volesse al limone o al mandarino, mi sono guardata in giro. Al tavolo della dolce famigliola era tornato il bambino più piccolo, ma non la madre. Erano solo in tre, a quel tavolo.
Il commissario ha detto quindi? Era la prima parola che pronunciava, negli ultimi dieci o dodici minuti. Quindi?
Non era nulla di particolarmente concreto, me ne rendo conto. Ma ero perlomeno laboriosamente riuscita a rimandare la pallina di là. Quindi c’erano due persone, fra quelle presenti, che avrebbero avuto il tempo di uccidere Ezechiele senza che io mi accorgessi di nulla. A meno che l’assassino non fosse entrato dall’esterno direttamente in cucina.
Il commissario ha scosso la testa. Non è possibile. È fatto male, quel ristorante. Non c’è modo di uscire o di entrare, di portare dentro le verdure o fuori la spazzatura, da quella cucina. Io ho detto lo so che è fatto male. È proprio per quello che mi sono scontrata prima con il padre e poi con la madre della dolce famigliola.
Il commissario ha accennato a un mugugno d’assenso. Poi ha detto va bene. Ha detto ora ti devo portare in cella. Era la condizione per poterti portare qui e farmi raccontare chi fosse l’assassino. O meglio, in questo caso specifico, l’assassina.
Normanno è stato di nuovo interrogato. Più per scrupolo che per altro. Era fuori a fumare, nel momento in cui Ezechiele è stato ucciso.
La madre della dolce famigliola, invece.
Il debito che il marito aveva contratto con Ezechiele lo stava letteralmente distruggendo. Le cose non erano andate proprio come previsto. E quel debito, aveva l’impressione, non sarebbe mai riuscito a ripagarlo. Oltretutto, Ezechiele cominciava a fare pressione, a minacciarlo. Lei era quindi andata a parlargli.
Nemmeno lei sapeva bene come fossero arrivati a quell’accordo. Ma Ezechiele aveva promesso di estinguere il debito ‒ comunque già abbondantemente ripagato dagli interessi da strozzino che aveva preteso ‒ in cambio di un giro di giostra con lei. Non so se mi spiego. Lei però aveva sempre trovato il modo di rimandare, di evitare qualsiasi ipotesi di giro di giostra con lui. Fino a quel pranzo, perlomeno.
Era suo marito che aveva insistito per andare a pranzo dall’amico Ezechiele, che era stato così gentile a lasciar perdere il debito che aveva con lui. Lei non se l’era sentita di addurre scuse per non andarci. E così si era trovata in una situazione molto scomoda. Il marito era passato a salutare Ezechiele. Mi ero scontrata anche con lui, uscendo dalla cucina. Così Ezechiele sapeva che lei era lì. E ha tenuto d’occhio la situazione, fino a che non l’ha vista accompagnare in bagno il figlioletto.
A quel punto l’ha chiamata dentro. Lei ha fatto finta di nulla, ma lui l’ha presa per un braccio. Così ha detto al figlio di andare al tavolo da papà, ché sarebbe arrivata subito. Ora che Ezechiele aveva comunicato anche al marito che non c’era più nessun debito fra loro, lo stesso Ezechiele pretendeva che venisse ripagato per la sua gentilezza. Con quel famoso giro di giostra che gli era stato promesso. E poi voilà, non sapeva spiegare esattamente come, ma si era accorta di aver preso un coltello e di averlo minacciato. Lui non l’aveva presa sul serio e lei gli aveva piantato il coltello nello stomaco. La sua faccia, i suoi occhi, quel suo restare muto e incredulo, non se lo scorderà mai, ha detto al commissario.
Quando mi ha sentito arrivare e gridare la nuova comanda, si è nascosta dietro al forno, tremante e con ancora il coltello fra le mani. Si è sentita un po’ sollevata, quando mi ha vista uscire. Con grande fatica, ha spostato il corpo dentro alla cella frigorifera. Poi, completamente nel panico, ha infilato il coltello insanguinato dentro alla borsa e ne ha preso un altro, a caso, tenendo il manico con un asciugapiatti. E l’ha infilato dentro a quello che ormai era solo il cadavere di Ezechiele Bernasconi. Poi è di nuovo andata in bagno, si è pulita le mani e ha convinto il resto della famiglia che era ora di tornare a scuola, pagando il dovuto senza chiedere il conto e portandosi a casa il coltello insanguinato.
8 pensieri su “L’andirivieni del Diamante (6/6)”
Seba, bellissimo il tuo racconto! Complimenti! C’è il modo di averlo sottoforma cartacea?
Ehi, grazie Susy! Mi fa piacere che tu abbia apprezzato.
Al momento nessuna pubblicazione cartacea di questo racconto. Magari in futuro, ci sto pensando. In compenso c’è anche un altro racconto, con la stessa protagonista. Non so le l’hai già letto. S’intitola “Due quaglie e una mezza carota” e qui trovi il primo episodio: http://sebamarvin.com/due-quaglie-e-una-mezza-carota-16/