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Coroi è come una Rolls-Royce

Tempo di lettura: circa 5’30”. /// Un ritratto di Noëmi Lerch. ///

Mesi fa, prima che uscisse il suo libro in italiano, l’avevo incontrata per farne un ritratto, poi pubblicato sul mensile Voce di Blenio. Adesso, dopo essere passata anche da Chiassoletteraria, di Noëmi Lerch è disponibile La contadina, tradotto da Anna Allenbach e da poco uscito per Gabriele Capelli Editore. Questo è il ritratto che ne avevo fatto.



Coroi è come una Rolls-Royce


Il cane si chiama Coroi. Ha lo stesso nome di una cima poco conosciuta della regione della Greina, di solito scurissima, ma che dopo un temporale, quando torna il sole, agli occhi diventa bianca. Il Coroi a quattro zampe, invece, è invariabilmente sia bianco che nero, a chiazze, senza il bisogno di bagnarsi e di asciugarsi al sole.

La sua padrona dice che è un po’ come la Rolls-Royce dei cani pastore. Poi però aggiunge che, per il momento, lei si limita a guidarlo come se fosse un trattore. Lei è Noëmi Lerch. Da ragazzina veniva d’estate a Olivone, dove i suoi genitori hanno una casa. Ora vive e lavora con Giovanni nell’azienda agricola sua e di suo fratello, poco sopra Aquila. E del posto in cui è cresciuta ‒ Freienwil, nel Canton Argovia, non lontano da Baden ‒ non prova particolare nostalgia: «È cambiato molto. Faccio fatica a ritrovarmici.»

Parliamo di origini, di attaccamento alla terra. In Giovanni lo vede, questo legame, lui che con questa terra ci lavora da una vita e che conosce toponimi che non figurano su nessuna cartina. Io guardo fuori dalla finestra e dico che si gode di una bella vista, dalla loro cucina. Giovanni non sembra condividere. Preferisce i paesaggi piatti, dice Noëmi, la quale si sente ormai parte di questo posto, pur sapendo che non sarà mai davvero così. «Sarò sempre la tedesca», dice con un leggero accento. E quando si unisce a una conversazione già iniziata, la gente passa invariabilmente dal dialetto all’italiano.

Coroi, nel frattempo, se ne sta tranquillo sul tappeto. Alza la testa solo quando diciamo che ogni animale ha una sua personalità.

All’inizio, per esempio, a Noëmi le mucche sembravano tutte uguali. La prima che ha imparato a riconoscere era anche la più facile: Ulrike, quella con dei folti ciuffi di pelo che le scendono dalle orecchie. Ma poi gli animali li riconosci soprattutto dal loro comportamento, dal punto in cui gli piace essere accarezzati, dal modo in cui ti cercano o ti sfidano con lo sguardo. Rega ti guarda sempre con un’espressione stupita, mi dice. Unia, invece, è quella che, anche quando sembra non esserci più erba da mangiare, gli ultimi giorni sull’alpe ‒ anche quando tutte le altre mucche tendono a dimagrire ‒ lei rimane lì con la sua pancia enorme, che ti viene da chiederti se non ci nasconda dentro qualcosa. E poi c’è Notte, teppistella da giovane e comandina ancora adesso. Le altre mucche, quando sono malate, mangiano poco, mi spiega Noëmi: con lei non noti nemmeno la differenza. Se Coroi è una Rolls-Royce, Notte deve essere una specie di carrarmato.

Non tutte le origini dei loro nomi sono chiare. Quello che sembra evidente è che i nomi delle mucche dicono di più sul contadino che non sulle mucche stesse. Solo che è difficile saperne di più. Giovanni e Pio, quando chiede loro perché la tal mucca si chiama nel tal modo, di solito restano sul vago. Dev’essere una di quelle leggi non scritte che non si possono trasgredire. Qualcosa del tipo che i nomi delle mucche diranno anche molto sul contadino, ma il contadino non dirà mai molto sui nomi delle proprie mucche. Una sorta di corto circuito che alimenta il mistero, invece di contribuire a svelarlo.

Usciamo dalla stalla e andiamo a salutare le tre capre di Noëmi, di cui Coroi dovrebbe occuparsi. La razza è autoctona e il capretto si chiama Sosto. Il cane prende molto seriamente il suo lavoro, anche se con tre sole capre l’immagine della Rolls-Royce guidata come se fosse un trattore prende tutto il suo senso. Ma l’intenzione è quella di aggiungere altre capre, e alle capre di aggiungere qualche pecora.

Per Noëmi questa sarà la terza estate che passa con Giovanni all’alpe. Dopo degli studi all’Istituto Letterario Svizzero di Bienne e all’Università di Losanna, aveva pensato di fare l’insegnante di tedesco. Ma l’idea di stare davanti a una classe non le piaceva o la spaventava. Così le sono tornate in mente le estati a Olivone.

Al caseificio Töira non avevano bisogno di un’aiutante. Ma è lì che le hanno fatto il nome di Giovanni, un casaro di Aquila che sarebbe salito all’alpe per fare il formaggio. Noëmi aveva già fatto qualche esperienza nei Grigioni, le estati precedenti. Non era una completa neofita. Da quelle prime esperienze, tra l’altro, ha tratto l’ispirazione per scrivere il suo primo romanzo ‒ Die Pürin, la contadina, ora pubblicato anche in italiano da Gabriele Capelli Editore (traduzione di Anna Allenbach). Prima di portarla con sé, Giovanni ha comunque pensato che fosse importante avvertirla: «Non spaventarti, perché non parliamo tanto.»

Quando le persone tentano di immaginarsi una donna sull’alpe, pensano al lavoro pesante che dovrà fare, alla durezza della vita lassù. Ma la vera difficoltà sta nello stare in compagnia di un’altra persona senza parlare. Parlare è quello che ci si aspetta da se stessi, quando si sta con qualcuno. Ma se si vive a stretto contatto per tanti mesi, mi dice Noëmi, non puoi sempre parlare. Bisogna imparare a stare insieme all’altro anche in silenzio, senza per questo sentirsi a disagio.

Prima di partire di nuovo per l’alpe, Noëmi è andata a presentare il suo secondo romanzo, Grit. A volte si sente un’impostora, come se facesse finta di fare la contadina, mentre sono gli altri a fare il vero lavoro. «Non lavoro al 100% come contadina. E spesso vado via, per le letture o per visitare la mia famiglia. Per me è importante dirlo. Perché c’è gente che si fa vedere come contadino, perché va di moda o per la propria carriera politica, dove un po’ di puzza di stalla fa sempre bene. Ma nel mio caso non oserei neanche dire che sono una contadina.»

Giovanni una volta si è arrabbiato, per un discorso del genere. La gente ha bisogno di mangiare come ha bisogno di storie. Ognuno fa il suo. E se c’è un posto in cui ognuno ha sempre il suo daffare, questo è sicuramente la fattoria.

Mentre mi appresto a rimontare in sella alla mia ebike per tornare a casa, Coroi si mette a giocare con un guanto di lattice blu, di quelli che si usano per mungere, come se fosse davvero una preda.


Questo articolo, in una forma leggermente diversa, è apparso sul numero di giugno 2017 del mensile Voce di Blenio, che ringrazio.

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