Non una recensione

Senza parole (3/4)

Tempo di lettura: circa 4’00”. /// Video: 14’29”. /// Non una recensione #1 (terza parte). ///

Dopo i fumetti (nella prima parte) e dopo la musica (nella seconda), questa volta vi presento due cortometraggi d’animazione, che vale decisamente la pena di scoprire. Con il primo vi porto a Taiwan, con il secondo in Germania.



Senza parole (terza parte)


La persona nella poltrona di fianco alla mia si asciuga una lacrima. Ha cercato di trattenerla ma non ce l’ha fatta. È rimasta lì in bilico, sulla terrazza del suo occhio lucido per più di qualche secondo, ma alla fine è scivolata giù lungo la guancia: una riga umida che la mano del mio vicino di poltrona ha prontamente cancellato, spargendola su tutta la guancia. Stiamo arrivando alla fine del film, e siamo talmente presi dalla storia ‒ ci sentiamo talmente vicini ai personaggi ‒ che il controllo delle nostre emozioni è più nelle mani del regista che non nelle nostre.

Ma non capita sempre. Non con tutti i film. Come riuscire a far scaturire delle emozioni così nel pubblico? È una domanda che mi pongo fin da bambino. E per quanto mi riguarda, il modo a me più congeniale è sicuramente quello di utilizzare le parole scritte.

Come dicevo nella prima parte di questo Non una recensione #1, però, il cliché dice che un’immagine vale più di mille parole. E questo è ancora più vero per uno abbraccio, uno sguardo, un sorriso. Perciò, quando un film riesce non solo a raccontarti una storia, ma anche ad abbracciarti, magari senza bisogno di parole, be’ quel film vale davvero la pena di essere accolto a braccia aperte.


Il cinema senza le parole

Pensando al cinema senza parole, sarebbe scontato parlare del cinema muto. Dell’inizio del cinema, in sostanza. E di tutti quei film che, pur senza utilizzare il parlato, hanno saputo emozionare tante persone. Meglio allora parlare della fine del cinema muto, del primo film in cui l’omino di Charlie Chaplin si mette a parlare, ovvero Il grande dittatore.

A pensarci bene, il bellissimo discorso finale dell’omino, del barbiere ebreo, prende ancora maggior forza proprio grazie al fatto che tutto ciò che lo precede è fatto di linguaggio non verbale, sia all’interno dello stesso film ‒ con il precedente discorso di Adenoid Hynkel, formato solo da suoni ‒ sia per quanto riguarda la filmografia stessa di Chaplin.

Su un altro piano, possiamo prendere come esempio un ritorno al film muto, con The artist, che ha emozionato e abbracciato le persone come pochi altri film hanno saputo fare negli ultimi. Ma anche in questo caso, parte della forza di quel film stava nel fatto che si trattasse di un ritorno al muto e al bianco e nero, in un periodo della storia del cinema fatto soprattutto di parole ed effetti speciali.

I due cortometraggi che vi voglio presentare oggi, invece, in qualche modo secondo me non dipendono da questo rapporto con il parlato.


Out of sight di Ya-ting Yu, Ya-Hsuan Yeh e Ling Chung

Un problema comune dei lavori di diploma, nelle scuole di animazione, è sicuramente quello di trovare poi degli attori che possano fare il doppiaggio. Così, spesso si lavora a un’idea in cui le parole ‒ i dialoghi ‒ non sono necessari. È il caso di Out of sight, nato come lavoro di diploma di tre studentesse della National Taiwan University of Arts, che a partire dal 2010 ha poi fatto il giro del mondo, anche grazie al fatto di essere comprensibile a qualsiasi persona, senza barriere linguistiche a fare da intralcio alla sua diffusione.

La trama di Out of sight è semplicissima: una ragazzina, Chico, viene derubata; il suo cane Gogo parte alla rincorsa del ladro e lei si mette a cercare Gogo.

La particolarità sta nel fatto che Chico è cieca, e che Out of sight riesce a mostrare con le immagini ciò che lei percepisce grazie agli altri sei sensi (sì, sono convinto che ne abbiamo sette, di sensi; e per capire cosa intendo, puoi leggere questo mio racconto). Oltretutto, lo fa in modo davvero molto poetico ed efficace.

Guardare per credere. Sono cinque minuti molto ben spesi.


Delivery, di Till Novak

Altro lavoro di diploma, altro cortometraggio d’animazione, ma feeling completamente diverso. In questo caso non sono tanto le emozioni a farla da padrone. E non mi interessa tanto per la sua bellezza intrinseca o per la sua capacità di abbracciare lo spettatore, anche senza bisogno di parole.

Una delle cose più importanti, fra quelle che le parole sanno fare bene, c’è quella di permettere le riflessioni, la rimessa in discussione di ciò che sappiamo e vediamo e di cui facciamo quotidianamente esperienza. E credo che, in generale, le parole questo lo sappiano fare meglio e in modo più approfondito, rispetto alle immagini.

Ma anche senza parole si può costringere lo spettatore a vedere la realtà in un altro modo, da un altro punto di vista. Anche senza parole, lo si può invogliare a prendere in considerazione possibilità diverse. Ed è ciò che fa molto bene Delivery del tedesco Till Novak, pubblicato nel 2005 e che trovate qui sotto.

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