Non una recensione

Senza parole (1/4)

Tempo di lettura: circa 5’30”. /// Non una recensione #1 (prima parte). ///

Esistono storie che non necessitano di parole per essere raccontate? Certo che sì! In questa prima parte, ve ne presento due a fumetti: L’approdo di Shaun Tan e Qui di Richard McGuire. La seconda parte, venerdì prossimo su questi schermi.



Senza parole (prima parte)

Il cliché vuole che un’immagine valga più di mille parole. E sebbene io mi diverta a mettere in discussione i cliché nei miei concerti casalinghi, credo che ci sia del vero in questo detto. Ma non per merito esclusivo delle immagini. Se oggi come oggi un’immagine vale davvero più di mille parole, è anche per demerito di queste ultime ‒ e di come le utilizziamo.

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Da ormai diversi anni, senz’altro anche grazie a una sempre maggiore attenzione alla grafica, alla qualità e alla presentazione delle fotografie e all’utilizzazione delle infografiche, si riesce a veicolare un messaggio infinitamente meglio e in modo più efficace di un tempo, con il solo ausilio delle immagini o quasi. Per quanto riguarda invece le parole, il loro utilizzo e la loro comprensione, non sono sicuro che ci sia la stessa cura. Non più, perlomeno. E se da una parte credo che le parole abbiano comunque ancora qualcosa da dire, come recita lo slogan di questo mio nuovo progetto di casa sul web, dall’altra trovo importante riconoscere come le parole non siano strettamente necessarie a veicolare un messaggio.

Ecco allora il punto di partenza di questo Non una recensione #1, intitolato appunto Senza parole. Per celebrare le parole e chi le utilizza in maniera efficace, efficiente ed esteticamente valida ‒ che è lo scopo di questa serie di articoli, non solo di questo #1 ‒ trovavo importante cominciare con il dire forte e chiaro che le parole non sono strettamente necessarie per raccontare una storia o esporre la propria idea o il proprio punto di vista.


L’approdo di Shaun Tan

Un problema di sicura attualità, che ci riguarda tutti, è come riuscire a comprendere ciò che sta accadendo ai tanti migranti che vediamo in tutti i telegiornali, di cui parliamo per strada, negli uffici o a scuola. Le immagini con cui i media ci rendono partecipi di ciò che accade, effettivamente, spesso hanno un impatto emotivo più forte ‒ e soprattutto più immediato ‒ di qualsiasi discorso. Raccontarne una storia, però, portare i lettori e gli spettatori a conoscenza delle vite di persone e famiglie reali, invece che di masse di gente indistinta, è sicuramente una delle principali strade da percorrere. Un’altra, magari meno trafficata ma altrettanto valida, è quella di ricordare che l’emigrazione non è qualcosa di recente: non molto tempo fa erano gli europei e i ticinesi a emigrare, a lasciare situazioni economiche e sociali senza futuro per crearsene uno dall’altra parte dell’oceano. Il padre di Shaun Tan, l’autore del fumetto di cui vi voglio parlare in quest’occassione, è uno di questi migranti del passato, arrivato in Australia negli anni ’60 dalla Malaysia.

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L’approdo, questo il titolo del libro (The Arrival nella versione originale), prende però ispirazione, perlomeno da un punto di vista iconografico, da Ellis Island e dallo sbarco degli europei a New York, facendoci fare al contempo un balzo indietro nel tempo e di lato, in un mondo di fantasia. Sì, perché non si tratta di New York né di nessun altro luogo esistente. Il protagonista, un padre di famiglia che all’inizio dell’albo lascia la famiglia per imbarcarsi su un’enorme nave, arriva in un mondo fantastico, popolato da strani animali e la cui lingua si scrive con simboli a lui ‒ e a noi ‒ sconosciuti.

L’assenza totale non solo di parole, ma anche di un qualsiasi linguaggio riconoscibile, di codici sociali comprensibili, ci costringe gentilmente a immedesimarci in questo padre, a perderci in sua compagnia in una società che non conosce, facendoci sentire dapprima spaesati e incompresi, ma poi anche grati e riconoscenti. Perché quando neanche i cartelli o le cartine topografiche sembrano dare una mano a orientarsi, a darci letteralmente la mano arrivano le persone, magari con una storia di migrazione alle spalle come noi; persone con cui, nonostante l’assenza di una lingua comune, si riesce in qualche modo sempre a comunicare, posto che ce ne sia la volontà. E poco a poco, insieme al protagonista, cominciamo a riconoscere qualcosa, a comprendere l’utilizzo di qualche strano oggetto, a notare con piacere che il simbolo che appare sul portachiavi che ci è stato consegnato è lo stesso che appare sulla porta che dà accesso alla nostra nuova casa.

Se cercate una storia di migrazione che possa graffiarvi gli occhi e accarezzarvi il cuore, facendolo battere a volte un po’ più forte, questa è la storia per voi. Una storia senza parole, non solo perché le parole non sono sempre necessarie, ma soprattutto perché l’assenza di parole, a volte, è assolutamente necessaria a raccontare il tipo di spaesamento che si prova ad arrivare in un luogo, e in una cultura, a noi completamente aliena.


Qui di Richard McGuire

Che cosa dire, invece, delle parole che hanno solo un ruolo decorativo, quelle che sembrano illustrare, più che dire qualche cosa? A prima vista, non ci fanno una gran figura. E trovo che in molte pubblicità, oggi come oggi, le parole abbiano davvero un ruolo quasi esclusivamente decorativo. Compriamo il nuovo rasoio, il nuovo vestito o la nuova automobile più per l’immagine che ne dà la pubblicità, che non per un discorso davvero convincente riguardo ai suoi pregi. Ma il fatto che delle parole abbiano solo o quasi un ruolo decorativo, non è per forza un male. È il caso di Qui di Richard McGuire (Here il titolo originale).

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Qui si svolge in unico luogo, in un periodo di tempo che va dal 3’000’500’000 a.C. al 2213, passando per il 2014, anno in cui è stato pubblicato. Con un sistema di immagini sovrapposte, come finestre affacciate su diverse epoche, l’autore ci mostra cosa è successo qui, nel posto che dà il titolo al libro. E in questo contesto, le parole assumono in qualche modo un ruolo non narrativo, bensì illustrativo, quello al quale troppo spesso sono state relegate le immagini.

Seppur su un piano completamente diverso rispetto a quello delle pubblicità, Qui utilizza le parole un po’ allo stesso modo: mette in avanti le immagini, togliendo importanza e senso alle parole. Per fare un esempio, in una scena, l’immagine principale è quella di una casalinga che passa l’aspirapolvere nel 1986 e che dice: «Più invecchio meno so.» Sul lato sinistro, nel 1960, un uomo, probabilmente il nuovo proprietario della casa,  rimuove la carta da parati. Sul lato destro, nel 1949, un altro uomo, in tuta da lavoro, attacca alla parete quella stessa carta da parati. Ciò che dice la signora non porta di per sé significato. Lei tornerà nelle pagine successive, ci sarà un seguito a quel «Più invecchio meno so.» Ma ciò che succede, in questa scena come nelle altre del libro, accade nelle immagini, non nelle parole. Nel caso specifico, accade in particolare fra le due immagini dei due uomini e in quegli 11 anni che le separano, nei cambiamenti sociali e culturali che fanno sì che la carta da parati venga prima applicata e poi rimossa.

2 pensieri su “Senza parole (1/4)

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