Tempo di lettura: circa 13’00”. /// Racconto inedito. ///
Per sua stessa ammissione, Barbara fatica a trattenere le emozioni dentro agli occhi, quando le succede qualcosa di bello. E la cosa in assoluto che più la fa stare bene, sin da quando era bambina, è muovere il corpo a ritmo di tango. La sua vita cambia quando Florian, ballerino di fama internazionale e autore di un celebrato metodo di insegnamento basato sui colori, accetta di darle alcune lezioni di prova. Ed è qui che le cose si fanno un po’ complicate, perché per Barbara i colori sono solo parole prive di qualsiasi significato.
Il colore dei passi di danza
Blu
A volte vorrei poter abbassare lo sguardo e seguire una lacrima scivolarmi lungo la guancia, contemplarla mentre s’incanala dentro la Fossetta delle Marianne che dicono mi si forma ai lati della bocca. Starei allora lì ferma a guardarla fondersi alle mie smorfie incontrollate, spalmarsi lungo le labbra, magari, prima di vederla esplodere in un sorriso. È uno dei miei difetti: non riesco a trattenere le emozioni dentro agli occhi, quando mi succede qualcosa di bello. Ma Florian insiste nel dire che nemmeno lui potrebbe mai fare una cosa del genere: osservare le proprie lacrime scivolargli lungo le guance, semplicemente abbassando lo sguardo.
Io chiaramente non so se crederci. Di lui mi fido — e lo trovo dolcissimo, quando dice certe piccole bugie per farmi apparire tutto più leggero — ma la fiducia è qualcosa di diverso dal credere a tutto ciò che una persona ti dice.
Stamattina, Florian a casa non c’era. Mi avrebbe raggiunto direttamente nei camerini del teatro. Come suo solito, invece, cinque minuti prima che suonasse la sveglia, Maverick mi ha leccato il braccio. Gli ho accarezzato meccanicamente il muso. Poi lui è uscito dalla camera da letto. L’ho sentito scendere le scale e scodinzolare contro la parete.
Mi sono messa a sedere sul bordo del letto. Nell’aria c’era un sentore di sollievo. Lo percepivo mischiato all’ossigeno della stanza, ma come uscito da un sogno e poi congelato lì, sospeso. Così ho esitato ancora qualche istante, prima di alzarmi definitivamente. Maverick ha guaito ed è tornato verso di me. Mi sono stiracchiata. Ho sbadigliato, coprendomi la bocca con una mano e cercando Maverick con l’altra. Gli ho accarezzato il pelo, detto qualche sciocchezza, poi ho tirato dentro un altro paio di profondi respiri e ho fatto i due passi che separano il letto dalla finestra. L’ho spalancata.
Di fronte a me, un grande gigante di ghiaccio a sbuffarmi il buongiorno con il suo alito pulito. La folata d’aria fredda mi ha investito senza remore la faccia, mi ha carezzato i capelli, le spalle, le braccia nude. È una cosa che adoro, d’inverno; mi dà la certezza di essere ancora viva. Immagino sia un po’ come aprire gli occhi e vedere la luce del sole, d’estate.
Florian dice che non lo sa, che questo non lo può dire. È difficile fare confronti se conosci solo una di due realtà. Ma lui da bambino aveva il terrore di svegliarsi e scoprirsi cieco. Quindi no, dice, la luce del sole non ti dà la certezza di essere ancora vivo; piuttosto, ti dà la certezza di poter vivere quel giorno come ogni altro.
E forse ha ragione lui. Si tratta di una possibilità da cogliere, più che di un dato di fatto.
Sono scesa in cucina, i piedi nudi sulle piastrelle. Ho preso una vaschetta di carne dall’armadio. Intanto, Maverick spingeva la sua ciotola sotto di me con la foga della fame.
È una ciotola blu. So che è blu perché me l’ha detto Florian. Fa un rumore diverso rispetto a quella di metallo in cui metto l’acqua. Il blu è stato anche il primo colore di cui Florian mi ha mai parlato.
Mentre Maverick trangugiava soddisfatto la sua colazione, ho preso del succo d’arancia dal frigo e me ne sono versata un po’. Il rumore del liquido è presto diventato abbastanza acuto. Ho appoggiato il cartone sul tavolo e ho bevuto qualche sorso.
«Il blu è un colore calmo, tranquillo», mi aveva detto Florian. «Non so se capisci quello che voglio dire.»
Rosso
Dovessi definire un inizio, una prima scintilla che ha dato fuoco alle polveri, sarebbe un concerto dei Gotan Project alla Luzerner Saal, ormai diversi anni fa. Nella hall del KKL si parlava di danza. Florian era lì per caso, ma non era per caso che si parlava di danza.
Dopo aver calcato i più importanti palcoscenici del mondo, colui che per me all’epoca si chiamava ancora Florian Zaugg, con il suo nome e cognome per intero, era tornato a Lucerna, dove era nato e cresciuto. E lì si era concentrato sull’insegnamento, sviluppando un celebrato metodo basato sui colori e mettendo in piedi la Florian Zaugg Tango School.

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In realtà, più che dire di sì a me, credo non abbia saputo dire di no all’insistenza di Anna. Dovessi stilare una lista di tutti gli imbarazzanti aneddoti — su di me bambina — che mia sorella gli aveva snocciolato uno dopo l’altro in quell’occasione, sarei in seria difficoltà, davvero, per non dimenticarmene nemmeno uno. «S’immagini», aveva cominciato col dire Anna, «ogni volta che i nostri genitori mettevano Astor Piazzolla sul giradischi, Barbara cominciava a muoversi senza controllo. Così.» E aveva preso a imitare i miei movimenti scomposti, con tanto impegno da tirarmi inavvertitamente un paio di gomitate, scusandosi, prima di aggiungere: «Non saprei descriverlo a parole. Piccolo demone, la chiamavamo. Diventava incontrollabilmente felice, con quella musica.
«Ma capisce», aveva poi aggiunto, cambiando improvvisamente tono di voce, «nella sua situazione, non è mai stato facile trovare qualcuno che ballasse con lei.»
Mi vuole bene, Anna, ma trova sempre il modo di farmi sentire sbagliata.
Eppure, devo ringraziare la sua insistenza, se Florian aveva infine accettato di offrirmi una lezione di prova. Alcuni giorni dopo ero quindi passata nel suo studio. Ma sin dall’inizio avevo sentito, molto chiara nella sua voce, l’impazienza di chi vuole finire in fretta una cosa e passare ad altro.
«Il blu è un colore calmo», mi aveva ripetuto quella prima lezione, senza saper bene come continuare quella frase.
«Non mi offendo, se ha cambiato idea, signor Zaugg», gli avevo detto. «Lo posso capire.»
«Diamoci del tu. Ti va?»
E la sua mano si era appoggiata sulla mia spalla, applicando una leggera pressione. «Il blu è un colore calmo», mi aveva ripetuto per la terza volta, «quasi placido.»
Si era poi preso un attimo di silenzio. La sua mano era sempre appoggiata alla mia spalla, immobile. Non avendo idea di cosa stesse pensando, ricordo che quel suo restare muto mi aveva fatto sentire un po’ a disagio. E di colpo, mi era salita in bocca la necessità di spezzare quel silenzio.
«Come il fuoco?», gli avevo chiesto, immaginando che si attendesse che dicessi io qualcosa.
«In che senso?», ha chiesto lui.
«Da bambina mi dava un senso di pace, stare ad ascoltare il fuoco davanti al camino.»
C’era stato un altro attimo di silenzio. Poi il suo respiro si era fatto rumoroso, e lo aveva rotto. Nel contempo, la sua mano si era staccata dalla mia spalla.
«Il fuoco è rosso. Il rosso è un colore impetuoso», aveva detto Florian.
«Mi spiace. Non volevo—»
«Dimmi qualcosa di rosso.»
«Non so cosa sia il rosso. Non lo posso sa—»
«Non mi interessa. Dimmi qualcosa che per te è rosso.»
«Senta— Senti, lasciamo perdere.»
«Qualcosa di impetuoso, allora.»
«Il mare, quando si butta sugli scogli», gli avevo gettato in faccia, con la ferma intenzione di prendere le mie cose e tornarmene a casa.
«Il mare è blu. Non te lo ha mai detto nessuno?»
«Però non è sempre calmo!»
«Forse non è sempre calmo», aveva sbuffato Florian, «però è sempre blu.»
Si era poi allontanato di qualche passo. Aveva fatto partire una musica che non conoscevo, molto tranquilla. Placida.
Mi aveva preso in una delicata morsa che mi impediva di non seguire i suoi movimenti.
«Pensa a un fuoco», mi aveva detto. «Sii intensamente blu come le fiamme di un fuoco.»
Violetto
Mi sono vestita. Ho messo in una borsa tutto il necessario per lo spettacolo: i vestiti di scena, le scarpe, l’astuccio del make-up. Maverick mi è venuto incontro per farsi mettere l’imbragatura. Non appena ho afferrato il manubrio, siamo usciti verso la fermata del bus. Poi fino alla stazione.
«Gleis sechs: Interregio Richtung Zug, Thalwil, Zürich Hauptbahnhof, Zürich Flughafen. Bitte einsteingen», ha detto l’altoparlante.
Mi sono immaginata Florian, seduto al mio fianco. Di solito, quando viaggiamo in treno, mi mette una mano sul ginocchio o si appoggia leggermente contro di me, con la spalla, per farmi sentire la sua presenza. Sa quanto sia importante per me il contatto fisico. A volte però si stacca, e allora so che devo aspettarmi la sua mano sulla guancia, fra i capelli. Quando mi accarezza in quel modo, mi giro verso di lui e gli sorrido. Sì, insomma, quella smorfia che anche gli altri si sono ormai abituati a chiamare sorriso. Ciò che non so è se anche lui mi sorride, mentre lo fa. O se lo fa così, guardando altrove.
«Balli anche con il viso, tu», mi aveva detto Florian con una punta di ruffianeria, verso la fine di quella prima lezione insieme. La musica si era improvvisamente fatta più movimentata. E lui, sempre con una decisa dolcezza, mi aveva stretto contro di sé, e aveva cominciato a condurmi in modo diverso: «Lascia che i tuoi movimenti diventino rossi come un mare in tempesta. Lascia che si abbattano sugli scogli.»
Non è accaduto da un giorno all’altro. È stato un processo, a volte difficile. Ho imparato poco a poco ad ascoltare il suo corpo, i suoi muscoli, più che le sue parole. «Non mi importa se per te i boschi sono viola. Mi basta che siano avvolgenti. Quando ti dico viola, immaginati ricoperta di muschio», diceva lui. E io lasciavo che mi avvolgesse.
Alcuni sostengono che gli esseri umani abbiano cinque sensi, ma si sbagliano. Io ne ho sei. Gli altri ne hanno sette. Mi ricordo di quando Anna ha avuto una labirintite. Diceva di non capire più quale fosse il sopra e quale il sotto. Per una volta nella vita, avevo meno difficoltà io di lei a camminare.
Ma non è solo questo nostro sesto senso — l’equilibrio — a permettermi di ballare. Ciò di cui non potrei fare a meno sul palco è la propriocezione — così l’ha chiamata Florian, se non sbaglio. Il senso che ci permette di sapere dove sono le nostre mani, le nostre gambe, anche quando non le possiamo vedere o se teniamo gli occhi chiusi. Molto più banalmente, il senso che ci permette di grattarci la schiena precisamente nel punto in cui ci prude, senza doverlo cercare tastoni.
Per me è un po’ diverso, naturalmente. Ma in fondo è lo stesso. Tutto ciò che mi serve è sapere dove sono le mie mani, le mie gambe, come devono essere tesi i miei muscoli. Non è come se vedessi, certo; è come se, per il tempo di uno spettacolo, non avessi il bisogno di vedere. E questa naturalezza traspare, a quanto dicono.
Per le prime date, il fatto che fossi cieca veniva sempre messo in avanti, in tutta la comunicazione, come per i fenomeni da baraccone di epoche passate e lontane. Ma col tempo, il passaparola ha cominciato a far circolare l’idea di uno spettacolo semplicemente imperdibile, senza più veramente fare riferimento alla mia situazione.
«Come si sta, a essere una ballerina di tango, e non più una ballerina di tango cieca?», mi aveva chiesto una volta Florian, dopo l’ennesimo sold out.
«Non lo so», gli avevo risposto io, in tutta sincerità. «Però è bello. Sentirsi più sicure dei propri mezzi, intendo.»
Ma in realtà qualcosa si è smosso, dentro di me. Non è tanto il fatto di essere considerata una ballerina come qualsiasi altra, ha più a che vedere con la possibilità di essere prima di tutto una ballerina; è anche questa un’occasione da cogliere, più che un dato di fatto.
Berlino
A Thalwil è salita anche Anna, per l’ultimo tratto di viaggio. È lì che abita, fuori Zurigo. Mi ha salutato, mi ha sfiorato la spalla e io mi sono porta verso di lei per un abbraccio.
«Eccitata?», mi ha chiesto, a proposito dello spettacolo.
«Sollevata», ho sospirato. «Non vedo l’ora di lavorare a qualcosa di nuovo. Ripetere all’infinito gli stessi movimenti, sulle stesse musiche, è diventato stancante.»
«Avete in programma qualcosa di nuovo?»
«Ieri Florian doveva incontrare qualcuno. C’è un teatro di Berlino interessato a produrre il nuovo spettacolo. Andremo a lavorarci direttamente là, ci mettono a disposizione degli spazi. E un appartamento.»
Anna mi ha abbracciato forte. Senza il minimo preavviso, questa volta. Poi l’altoparlante ci ha interrotto: «Nächster Halt: Zürich Haptbahnhof.» E mi sono asciugata la lacrima che, ancora una volta, non ero stata capace di trattenere dentro agli occhi.
Anna si è alzata a prendermi la borsa. Maverick ha capito che stavamo per scendere, ma si è subito rimesso tranquillo. Abbiamo aspettato sedute che il treno si fermasse, che gli altri passeggeri si accodassero lungo il corridoio e scendessero dal vagone.
Quando siamo arrivate al teatro, Florian era già lì. Con l’aiuto del tecnico, stava sistemando le luci.
Qualche minuto dopo, insieme ai musicisti, è arrivato anche il giornalista della NZZ. Lo aspettavamo, era settimane che ci chiedeva quell’intervista. Ci ha fatto tirare un inevitabile bilancio della tournée che si stava per concludere. Ci ha fatto un paio di altrettanto inevitabili domande riguardo a Berlino, al futuro spettacolo. E per chiudere l’intervista, forse a caccia di qualche bella frase da poter citare, ci ha chiesto cosa ci avesse mai spinto ad abbracciare la danza.
Florian, senza esitazione, ha tirato fuori la solita frase dal suo repertorio di risposte pronte, costruito in tutti quegli anni passati sulle scene, accennando a un episodio legato alla sua infanzia. Io ho tirato fuori la mia, anche se ho dovuto pensarci più a lungo, dovendo trovare il modo di esprimermi in tedesco, pescando dal limitato stock di vocaboli che conosco.
Avessi potuto dirlo con parole che sento totalmente mie, avrei detto che ballo perché, qualsiasi dio ci sia lassù, mi ha fatto innamorare del tango e mi ha dato un corpo per ballarlo. E allora ballo. Quando hai la possibilità di fare una certa cosa, e quella cosa ti fa stare bene, dovresti farla ogni volta che puoi.
Con la sala ormai piena, Florian ha preso le mie spalle fra le sue mani. Ha fatto scivolare le mani lungo le mie braccia, fino a far intrecciare le nostre dita. Poi mi ha detto: «Balliamo. Ti va?»
E quando il bandoneón ha fatto morire l’ultima nota, un’ora abbondante più tardi, ho lasciato che tutta l’aria che mi restava in fondo ai polmoni uscisse e si disperdesse nel teatro. Ho sentito un nodo risalirmi la gola. Ho trattenuto il respiro, per qualche attimo, accogliendo l’applauso del pubblico. Poi sono tornata a respirare, finalmente, tirando dentro tutto quello che arrivava. La mano di Florian mi ha invitato a girarmi, a ringraziare gli spettatori. E come mio solito, non sono riuscita a trattenere le emozioni dentro agli occhi.
Avessi potuto, avrei sicuramente abbassato lo sguardo. Avrei seguito le mie lacrime scendere lungo le guance, osservandole incanalarsi dentro la Fossetta delle Marianne che secondo Florian rende i miei sorrisi così speciali. E invece niente, io non posso farlo. Mi sono dovuta accontentare di sentirle scivolare giù, fino a spalmarsi lungo le labbra. Ne ho percepito appena il gusto salato sulla lingua. Poi, insieme a Florian, mi sono piegata in un inchino.
Qualche goccia di gioia è inevitabilmente caduta sul palco.
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