Tempo di lettura: circa 11’00”. /// Non una recensione #2. ///
È indubbio che ci vorrebbero più libri scritti da donne e più libri che hanno come protagonisti dei personaggi femminili. Ma io credo che ci vorrebbero anche più uomini che mettono in scena personaggi femminili nei loro libri. Oggi ve ne presento due.
Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne
Prima parte ‒ Seconda parte ‒ Terza parte ‒ Quarta parte
Mi piace scrivere. Mi piace raccontare storie. Mi piace però anche leggerle, le storie. E poco importa se le si legge o se le si scrive, la cosa migliore che le storie possono fare è costringerti a vestire i panni di un’altra persona; guardare il mondo dal suo punto di vista, provare a immaginare cosa faresti tu nella sua situazione.
In particolare, metterci nei panni di una persona dell’altro sesso, per il tempo di un racconto o di un romanzo, trovo che sia un esercizio fondamentale, che ci rende inevitabilmente più sensibili alle situazioni che l’altro genere si trova a dover affrontare. Questo non vuol dire capire o provare le stesse cose. Perlomeno, non fino in fondo. Piuttosto, credo che possa sviluppare una predisposizione all’ascolto, alimentando la nostra curiosità verso l’altro o l’altra, nonché un’abitudine a scoprire prima di giudicare, a capire prima di dare consigli. Del resto, di questa cosa ne parlavo già alla fine della terza parte del Non una recensione di questo mese, rispetto ai personaggi della serie web canadese Féminin/Féminin.
Per quanto mi riguarda, ad ogni modo, quella di scrivere narrativa dal punto di vista di un personaggio femminile è una cosa che ho bene o male sempre fatto, e apprezzato fare. Uno dei primi racconti che mi hanno permesso di vincere un premio è per esempio narrato da un io femminile. Intitolato I karité all’orizzonte e poi Tané, l’avevo scritto di ritorno da un viaggio di scambio il cui scopo era aiutare non solo con i soldi, ma anche con le braccia, a costruire una scuola a Zindenkui, in Burkina Faso. Mi era venuta voglia di provare a rivivere alcune sensazioni di quell’esperienza attraverso gli occhi di una donna, e così ho scritto quel racconto. Più recentemente, l’ho fatto invece con La quarta regola di ogni trasloco e con Il colore dei passi di danza.
In quest’ottica, viene però da chiedersi: ha davvero senso leggere un libro scritto da un autore uomo, ma narrato dal punto di vista di un personaggio femminile? Allo stesso modo, ha senso leggere un libro scritto da un’autrice donna, narrato però da un punto di vista maschile?
Paolo Cognetti
Paolo Cognetti è uno scrittore italiano, autore di diversi libri di racconti e saggi, ma anche documentarista e amante di New York e della letteratura nordamericana. La descrizione più accurata che posso dare di lui e di ciò che scrive è sicuramente questa: l’ho consigliato a un’amica in cerca di nuove letture e, dopo averlo letto e profondamente apprezzato, mi ha detto, senza mezza esitazione, «Ti eleggo mio consulente letterario!»
Una delle sue particolarità è quella di raccontare spesso di personaggi femminili. Non è un caso, del resto, se la sua prima raccolta di racconti s’intitola Manuale per ragazze di successo. Il racconto che dà il titolo al libro ha in qualche modo la forma di un manuale, quel manuale con cui tutti, prima o poi, ci troviamo a fare i conti, fatto di tutti i “ciò che dovresti fare” detti dalle altre persone, dai media o ‒ a volte ‒ anche da noi stessi. Si tratta forse di un manuale che risuona con maggiore insistenza nelle orecchie delle donne, piuttosto che in quelle degli uomini, ma non posso esserne sicuro. Ad ogni modo, il racconto inizia così: «Il modello femminile dominante, l’eredità materna con cui ogni donna deve fare i conti, è la prima cosa di cui sento parlare dopo mezz’ora di monologo ininterrotto.» E se penso al rapporto fra padre e figlio rispetto a quello fra madre e figlia ‒ nonché fra ogni donna e la figura della madre in generale ‒ be’, credo non ci sia confronto.
Tornando all’idea di manuale, non è un caso che la protagonista del racconto lavori nel mondo della pubblicità, la quale non lesina certo consigli più o meno o ancora meno velati riguardo al “come dovremmo essere”. La protagonista del racconto, però, è alle prese con la propria vita, quella vera ‒ un po’ come tutti noi. E un punto di forza dei racconti di Cognetti è sicuramente il fatto di riuscire a parlare di noi, delle persone che siamo, dei problemi che ci troviamo quotidianamente ad affrontare.
Se prendiamo il racconto che apre la sua seconda raccolta, Una cosa piccola che sta per esplodere, il noi diventa addirittura esplicito. Il racconto si intitola Pelleossa e tratta di un problema che, nella nostra società, è soprattutto femminile, ovvero l’anoressia. Quello che mi piace è che, sebbene il tema sia quello, Cognetti mette prima di tutto in scena dei personaggi che suonano come veri, delle situazioni che suonano vere. Non c’è l’intenzione di dire qualcosa sull’anoressia, piuttosto di mettere in scena dei personaggi che sono toccati dal problema. E quel noi su cui insiste per ben quattro pagine, prima di introdurre la protagonista vera e propria del racconto, è un “noi” che non riesco a vedere rappresentare una generazione o una parte della società; io lo vedo come la società intera, la società di oggi, che si rispecchia in quei “i nostri genitori”, come a dire che noi siamo ciò che i nostri genitori ci hanno lasciato, indipendentemente dal fatto che abbiamo 5 anni o 95. Il che non ci leva le nostre colpe, non ci solleva dalle nostre responsabilità. Ma allo stesso tempo, sembra dire Cognetti, dobbiamo ricordarci di non sobbarcarci responsabilità non nostre, responsabilità del passato, il mondo che così com’è non abbiamo contribuito a crearlo, l’abbiamo solo ereditato.
Personalmente, quest’idea la trovo in qualche modo anche in Sofia si veste sempre di nero. Un piccolo gioiello narrativo, secondo me. Con questo libro, Cognetti si aggrappa al suo amore per la forma racconto. Ma decide di farlo seguendo sempre lo stesso personaggio, la Sofia del titolo, in tutti i racconti che compongono l’opera e che spaziano temporalmente sull’arco di 30 anni. Ne risulta un romanzo ‒ l’editore lo chiama, senza sbilanciarsi, ‘prova narrativa’ ‒ dal sapore particolare, che racconta della vita di una bambina, ragazza, donna attraverso alcuni episodi della sua vita, lasciando al lettore l’onere, l’onore e la libertà di riempire i buchi temporali, immaginare come Sofia e gli altri personaggi del libro siano passati da A a B.
In definitiva, per ritornare alla domanda che mi ponevo più sopra, ha senso leggere un libro scritto da un autore uomo, narrato però da un punto di vista femminile? Io credo di sì. Nel caso di Paolo Cognetti sicuramente. Anche solo per mostrare che il modo che hanno gli uomini di vedere le donne ‒ o il modo che hanno alcuni uomini o la gran parte degli uomini ‒ non è così superficiale come fanno sembrare gli stereotipi. E come ho cercato di dire con tutti e quattro gli articoli che compongono il Non una recensione di questo mese, e come provo a dire anche nella serie di concerti Per l’amor dei cliché, quella contro gli stereotipi è una battaglia che vale davvero la pena combattere.
Il problema della mancanza di punti di vista femminili
Il problema però non è solo questo. Il problema è anche che, in un gran numero di storie, in particolare in quelle della cosiddetta pop culture, c’è una cronica mancanza di personaggi femminili in generale, e di personaggi femminili che non siano poco più di una caricatura di Barbie in particolare. Si tratta di un problema per le bambine e per le adolescenti, che si ritrovano con un numero molto limitato di modelli da poter prendere a esempio, ma lo è in realtà per tutti, uomini in primis. Come spiega Crystal Smith nel suo libro Achille’s Effect, in cui analizza le immagini e i modelli a cui sono soggetti i suoi due figli maschi: «Facendo un ritratto delle ragazze come frivole, troppo emozionali e con uno scarso interesse per qualsiasi cosa che non sia “piacere ai ragazzi”, la cultura popolare si sta rendendo colpevole di veicolare una visione tradizionale della virilità. Siccome le ragazze, in una storia, spesso esistono solo in base alle relazioni che intrattengono con gli uomini e sono dunque ritratte come scolarette malate d’amore o come mogli/sorelle/figlie rompiscatole, si rinforza l’idea che le femmine siano di secondaria importanza rispetto ai maschi, e abbiano poco da offrire al di là del provarci con i ragazzi o rendersi patetiche.» Senza dimenticare che questa visione stereotipata dei rapporti che devono esistere fra uomini e donne, come dicevo nella seconda parte di questo Non una recensione, è alla base, fra le altre cose, della maggior parte della violenza di genere.
Demonizzare Barbie non risolve ad ogni modo il problema. Anche perché, come fa ben notare Martine Delvaux nel suo libro Les filles en série, riguardo a ciò che i bambini e le bambine hanno come esempio dall’industria dell’entertainment, si tratta prima di tutto di un problema di varietà, a livello di modelli e di scelta dei personaggi nei quali potersi immedesimare, non di singoli esempi: «[…] come ben sottolineato da Naomi Wolf, non è l’immagine di Barbie in quanto tale a rappresentare un problema; è la proliferazione di immagini come la sua, a scapito di altre immagini. Se la modella anoressica, dalle linee sproporzionate, fosse un’immagine fra le tante, all’interno di uno spettro più ampio d’immagini, messe a disposizione delle ragazze, fra cui scegliere mille e un futuro, non sarebbe un problema. Il problema è che questa immagine è la sola ad essere presentata.»
E quindi? E quindi una delle direzioni verso cui muoversi è quella di proporre ‒ nei romanzi, nei racconti, nei cartoni animati ‒ personaggi femminili variati, che si discostino da cliché triti e ritriti; eroine che abbiano a che fare con grandi problemi da eroine e con piccoli o enormi problemi quotidiani, come tutte le adolescenti che, crescendo, si scontrano con la realtà del mondo adulto.
Insomma, quello di cui vi voglio brevemente parlare per chiudere è solo un esempio. Ma è un esempio interessante. Si intitola Anda’s Game ed è un racconto di Cory Doctorow, liberamente distribuito in Rete con una licenza Creative Commons.
Anda’s Game di Cory Doctorow
Il primo motivo per cui vi voglio parlare di questo racconto di Cory Doctorow è tutto racchiuso nelle prime frasi dello stesso, che secondo una mia veloce traduzione potrebbero suonare così: «Anda non cominciò veramente a sentirsi parte del gioco finché non si concesse un avatar femminile. Aveva 12 anni, e fino a quel momento aveva sempre giocato come elfo-maschio, perché i suoi genitori l’avevano più volte avvertita che giocando come femmina ci si trasforma all’istante in un magnete per pervertiti. Non una singola ragazza dell’Ada Lovelace Comprehensive avrebbe mai giocato con un personaggio femmina. Di fatto, le sole femmine che avesse mai visto all’interno del gioco erano controllate da maschi. Lo si capiva subito, ché erano fatte secondo l’idea maschile di com’è fatta una ragazza: du’ poppole così e gambe lunghe, il tutto costretto a fatica in minuscole armature-bikini in cuoio senza alcun senso. Pulzellame, lo chiamava lei.»
Quello del sessismo attorno ai videogiochi ‒ più che nei videogiochi ‒ è un problema molto reale, non è fantascienza. D’altronde, il bello della fantascienza ‒ e questo racconto non fa eccezione ‒ è proprio quello di parlare di qualcosa di molto reale, pur mettendolo in scena in un mondo o in una società che reali non sono.
La storia è quella di Anda, un’adolescente britannica che si ritrova a doversi confrontare con il mondo adulto, quello reale e quello virtuale allo stesso tempo, rendendosi conto che i due mondi inevitabilmente s’intrecciano. Da un punto di vista narrativo, lo trovo interessante soprattutto per due motivi: da una parte, perché mette a confronto due punti di vista diversi, quello di Lucy e quello di Raymond, due persone che Anda incontra nel gioco, lasciando al lettore la possibilità di interrogarsi e di giudicare quale sia il punto di vista più vicino al proprio; dall’altra perché riesce a parlare a degli adolescenti di un tema complesso, come quello dei rapporti economici e commerciali fra Nord e Sud del mondo, in maniera convincente ed efficace. Rispetto a ciò che dicevo prima, però, Anda’s Game è interessante soprattutto per un altro motivo ancora: la protagonista è una ragazza in cui tutti ‒ uomini e donne, ragazzi e ragazze ‒ si possono immedesimare; è uno di quei personaggi femminili lontani dagli stereotipi e vicini alle sfide quotidiane di tutti noi, quei personaggi femminili che si dovrebbero vedere con maggiore frequenza nelle storie.
Il racconto originale, in inglese, lo trovate su Salon.com. Ma la fantascienza non è proprio il genere più facile da leggere in una lingua straniera, soprattutto se è raccontato dal punto di vista di un’adolescente e se utilizza parecchio gergo orale. In questo senso, come ultimo appunto, trovo molto interessante il fatto che il personaggio di Raymond sia l’unico a scrivere in chat in modo linguisticamente corretto, dando parecchie informazioni su di sé solo per questo fatto, pur essendo il personaggio più misterioso dell’intera storia. Ad ogni modo, per fortuna, le Edizioni BD hanno pubblicato in italiano il fumetto che ne ha tratto Jen Wang, intitolato In Real Life.
Non una recensione torna fra due settimane (il 1° aprile mi prendo una pausa). E si resta sulla fantascienza, con un mese dedicato a quattro visioni distopiche di città italofone.
10 pensieri su “Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne (4/4)”
Grazie Seba per aver svolto questa analisi della mancanza di sguardo maschile sul femminile! Concordo con te che ha senso il punto di vista maschile sulle donne, perché anche se fosse stereotipato – e nel caso di questo autore che leggerò presto non penso lo sia – è pur sempre rivelatore e pertanto ci dà la possibilità di riflettere. Che è ciò che farò anche io grazie a questo spunto interessante.
Grazie per il tuo commento, Manuela! Penso sia un tema che si possa approfondire ulteriormente. Magari sul tuo blog. In ogni caso sì, trovo che che sia un tema su cui è importante riflettere. Poi magari non condividiamo tutti i punti di vista che troviamo sull’argomento, ma è importante stimolare la discussione a riguardo.
Se condividessimo tutti i pensieri saremmo la stessa persona. Quindi ben vengano le differenze, i punti di vista… beh, diversi, come si sta dicendo…. e tutto ciò che, attraverso gli occhi dell’altro, i suoi ragionamenti, la sua esperienza, ci apre strade, pensieri e alla fine azioni che non potevamo prevedere. Sì, lo riprenderò sul mio blog. Mi hai fatto pensare che anche io ho scritto una volta in prima persona. Si tratta di un racconto, che pubblicherò a breve in raccolta.