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Una malattia chiamata perfezionismo

Che fine hanno fatto Colibrì e Tosti ‘sti testi? Forse te lo stavi chiedendo. O forse no. Magari nemmeno sai cosa sono. Perdonami, ma sai, ciò che facciamo in prima persona ci sembra sempre più importante di quanto in realtà non sia, soprattutto agli occhi degli altri. Ad ogni modo, sono entrambi momentaneamente in stand-by. A te decidere se vedere il bicchiere mezzo vuoto, mettendo l’accento su stand-by, oppure mezzo pieno, mettendolo invece su momentaneamente.

Fatto sta che l’unica puntata di uno dei due programmi andata in onda nel 2019 è stata quella di Tosti ‘sti testi dedicata allo splendido nuovo album di Zaz del 7 gennaio. E siamo alle porte di marzo.

Se a interessarti è solo la mia riflessione su quella maledizione chiamata perfezionismo, scorri più giù. Altrimenti continua la lettura!

Altrimenti, sappi che alla base di questo mio nuovo post c’è il fatto di aver scoperto di essere meno super-uomo di quanto credessi. O di non esserlo affatto, di essere anzi forse solo tre quarti di un uomo ordinario. Non so se a te è mai capitato, di provare una sensazione del genere; di riuscire, nonostante tutti i tuoi sforzi, a fare solo una frazione di quello che fanno le altre. Di essere una donna a metà. O a sette ottavi, non so. Come Money dei Pink Floyd o L’albero di Jovanotti.

Quel che è certo è che ho sopravvalutato le mie capacità organizzative, nonché il tempo realmente a mia disposizione; e soprattutto, ho sopravvalutato la mia capacità di erogare con costanza l’energia necessaria a far girare tutti e otto i motori dell’aereo pur essendo in riserva da un po’.

Ho fatto scalo. Poi mi sono detto che tanto valeva approfittarne per fare una revisione generale del velivolo. A quel punto mi sono ricordato di quanto odio gli aereoporti e che preferisco volare con le ali della fantasia, piuttosto che con quelle metalliche di un jet. Da lì in poi, tutto si confonde. Forse ho allargato le braccia. Ho cominciato a correre in giro dicendo di essere Jonathan Livingston. E mi hanno internato in qualche ospedale psichiatrico, bombardandomi di psicofarmaci.


24 ore al giorno

Hai presente quando si hanno in testa tutte quelle cose belle e interessanti da portare avanti e solo 24 ore al giorno per farlo? Giusto per rendere la proporzione della tragicità di questo nostro limite ‒ mio, ma ne sono certo, anche tuo ‒ sappi che sul mio computer c’è un file in cui inserisco di volta in volta ogni libro che mi sembrerebbe interessante leggere ma che non ho tempo di leggere adesso. Oggi ha raggiunto le 8 pagine fitte-fitte. Ultimi libri inseriti: Girls Are Coming Out of the Woods di Tishani Doshi e Nafasam di Chirine Sheybani. E considera che in questa lista non entrano i libri che riesco effettivamente a leggere. Né quelli che effettivamente compro, i quali di regola sono oltretutto più di quelli che leggo. E da bravo figlio di bibliotecario, parte dei libri che leggo in realtà non li possiedo nemmeno: li prendo in prestito. Senza dimenticare che mi sto limitando a una sola delle tante cose che mi piacerebbe fare prima di morire, ovvero leggere tutti i libri interessanti che ci sono in circolazione.

Insomma, non so a te, ma a me piace anche il mio lavoro di giornalista a Cooperazione, mi piace organizzare Chiassoletteraria, mi piace condurre programmi radiofonici per Radio Gwendalyn e ‒ di tanto in tanto ‒ mi piace mangiare un gelato. (Per inciso, io sono uno di quelli che i gelati li mangia, non li lecca. Il che, sull’arco di una vita, mi fa risparmiare parecchio tempo, perché lo finisco prima. Però li mangio volentieri anche d’inverno, quindi è un’attività che porto avanti con passione lungo tutto l’arco dell’anno, senza pause stagionali. Argh!)

A fregarmi c’è poi la voglia di scrivere ‒ o meglio, la necessità di dire e raccontare cose per iscritto. Non sai il piacere che sto provando adesso, tornando a scriverti una nuova riflessione alla seconda persona, dopo mesi che praticamente non toccavo il mio sito, se non per segnalare la pubblicazione di questo o quel podacst o di un articolo.

Sia però chiaro che questa situazione non dipende esclusivamente dalla mia difficoltà a trattenere le dita quando stanno sopra a una tastiera. Recentemente sono stato invitato a tenere un mini-discorso, seguito da una lettura di alcuni miei testi, per un’occasione importante. Purtroppo è un evento privato e non ti posso invitare. Se te lo dico non è comunque per farti rosicare. Il fatto è che è stata l’occasione di riprendere in mano alcuni testi scritti negli anni scorsi, per rivederli, farne una scelta. E tutto questo mi ha fatto rendere conto di volermi dovermi ritagliare più tempo per scrivere nuove cose, e portare per esempio finalmente a termine il romanzo che in realtà ho portato a termine già tempo fa, ma che― be’, sai com’è: è ancora perfettibile.

Ed è qui che entra il gioco il mio più grande nemico: il perfezionismo.


Io non c’entro, è stato lui

Che fosse durante la riscrittura del romanzo, la scrittura di un breve racconto, il mio lavoro a Cooperazione o il dietro le quinte dei due programmi radiofonici di cui stavo parlando prima di divagare, nelle ultime settimane ho avuto l’ennesima e l’emmesima conferma del mio perfezionismo latentelatente è chiaramente un eufemismo, a tratti assomiglia più all’insegna luminosa di un casinò di Las Vegas che non a qualcosa che riesco anche solo vagamente a nascondere in tasca.

Piuttosto che buttar là le cose o farle male, non le faccio. Mi fermo. Mi prendo il tempo ‒ o perlomeno questo è quello che mi sento dire a me stesso quando lo faccio: mi prendo il tempo per migliorare, per mettere a posto.

(A scanso di equivoci, una piccola parentesi: nonostante la comune radice del termine, il perfezionismo, come concetto, è decisamente più vicino all’accanimento terapeutico che non alla perfezione. Ma si tratta di un accanimento terapeutico montato al contrario, che impedisce di vivere invece che di morire. Un po’ come se Victor Frankenstein, dopo aver dato la vita alla sua creatura, ogni volta che il mostro provasse ad alzarsi gli dicesse: «Stai giù, non ho ancora finito!»)

Se non te ne sei ancora resa conto, è bene farlo subito: le nostre creature, qualsiasi forma esse abbiano, sono perfettamente in grado di camminare da sole. C’è sempre tempo per raddrizzare un colletto storto o allacciare un bottone in più come un padre premuroso. Ma è solo lasciandole correre che possiamo incitarle come madri scalmanate da bordo campo.

«Let it go», come canta Elsa in Frozen. «Let the storm rage on», fino a che «that perfect girl is gone».


E quindi?

E quindi nulla. Dopo essermi reso conto che non riesco a fare tutto, ma che riuscirei a fare molto di più se solo riuscissi a lasciare un po’ meno spazio a questo maledetto perfezionismo che mi perseguita, ho deciso per l’ennesima volta di provare a limitarlo. In fondo non ci vuole un super-uomo per fare in modo che tutti e otto i motori dell’aereo funzionino a pieno regime. Ne basta uno solo, ma intero, che non lasci frazioni di sé stesso al perfezionismo. O perlomeno non un intero quarto. Forse un ottavo. Un sedicesimo. Un duecentocinquantaseiesimo di me. E non provare a fare tutto da solo. Essere interi è importante, ma per i super-uomini e le super-donne non c’è spazio. Ne occupano troppo, quelli che vogliono fare tutto da soli. Meglio fare poco, ma dando comunque il proprio contributo a ognuno degli otto motori dell’aereo.

Colibrì e Tosti ‘sti testi torneranno. Spero molto presto. Se ti mancano, per il momento puoi comunque riascoltare le vecchie puntate. Il vantaggio di internet è che quelle restano. Nonostante il perfezionismo, che vorrebbe sistemare quella frase balbettata, quell’opinione mal espressa, quel colpo di tosse microfoni aperti.

Qui tutti i podcast di Tosti ‘sti testi: https://www.radiogwen.ch/category/rubriche-musicali/tosti-sti-testi/

Qui quelli di Colibrì: https://www.radiogwen.ch/category/rubriche-musicali/colibri/

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