Tempo di lettura: circa 14’00”. /// Non una recensione #2. ///
Un libro formato da esattamente 1’650 frasi. Un libro che chiama in causa gli uomini, per mettere fine alla violenza contro le donne. E un libro che presenta una nuova e controintuitiva teoria sulle origini della violenza. Ecco cosa aspettarsi dal Non una recensione di questa settimana!
Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne
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In Francia come altrove esistono servizi che si occupano di offrire aiuto, consulenza e soprattutto ascolto a persone vittime di violenza domestica. Eléonore Mercier è stata per 15 anni una di queste écoutante ‒ una “ascoltatrice” ‒ pronta a rispondere alle telefonate di chi chiedeva sostegno e consiglio. E durante quei 15 anni, senza rendersene davvero conto, almeno inizialmente, ha preso l’abitudine di annotare la prima frase ‒ ed esclusivamente la prima frase ‒ che veniva pronunciata da chi la chiamava.
Alle volte, quella prima frase era spontanea, la prima cosa che veniva in mente, un modo per rompere il ghiaccio. Altre volte era una frase ben studiata, ripetuta mentalmente chissà quante volte per farsi coraggio, nelle cui poche sillabe veniva condensato tutto ciò che c’era da dire su una data situazione. Sempre, in ogni caso, quella prima frase rivelava un disagio che non poteva più rimanere nascosto. E per 15 anni, Eléonore Mercier ha continuato ad annotarsele, senza uno scopo preciso. Finché a un certo punto si è detta che poteva essere interessante farci qualcosa.
Il risultato è un libro che si intitola Je suis complètement battue, da una di queste prime frasi, e che ne raccoglie altre 1’649, scrupolosamente selezionate dall’autrice e pubblicate dalle edizioni P.O.L. di Parigi nel 2010 (al momento, purtroppo, non ne esiste una traduzione italiana).
La poesia delle situazioni drammatiche
Mi sembra giusto dirlo subito: più che di una testimonianza si tratta di una riuscitissima sperimentazione letteraria. Di ciò che accade fra le mura domestiche di ancora troppe case, in Francia come altrove, si vedono solo i graffi sulla pelle: la ciccia del libro è fatta di parole; la carne di formulazioni spesso buffe, bizzarre o sgrammaticate; il sangue è quello che scorre nella sua evidente vena poetica, che si estingue solo all’ultima pagina, conclusa appunto dal je suis compètement battue del titolo, ovvero sono completamente maltrattata.
Il risultato è qualcosa di difficilmente etichettabile e, allo stesso tempo, di incredibilmente efficace nello smuovere emozioni, nell’accedere a quella parte di noi che, quando leggiamo un libro o guardiamo un film, si mette a vibrare, generando brividi o moti di sdegno. Senza contare che, leggendo tutte queste frasi, poste una dopo l’altra, senza alcuna soluzione di continuità, a un certo punto si sente la necessità di tendere la mano al libro, come se fosse diventato esso stesso una persona in difficoltà, come se con questo nostro gesto fosse davvero possibile aiutare qualcuno.
Come detto, però, nonostante la drammaticità delle situazioni descritte, ci si sorprende spesso a sorriderne, per via di frasi un po’ contorte, formulazioni buffe o pure e semplici sgrammaticature, dettate sicuramente almeno in parte dall’agitazione del momento. È il caso per esempio di quella che dà il titolo alla raccolta, programmatica e scelta non a caso per figurare sulla copertina del libro. Un altro esempio potrebbe essere: «Je fais l’objet de problèmes conjugaux assez désagréables», sono oggetto di problemi coniugali piuttosto spiacevoli. O ancora: «J’ai besoin d’un secours humain», ho bisogno di soccorso umano, che non dice nulla sulla situazione vissuta da quella persona, ma in fondo dice tutto del suo stato d’animo. Sono frasi come questa che ti fanno provare quella necessità di tendere la mano al libro: ho bisogno di soccorso umano.
Ogni tanto, poi, compare un totale spaesamento, come nel caso di «Je veux un conseil pour savoir comment il faut que je m’y prenne pour savoir déjà où j’en suis», che può forse venir tradotta con «voglio una consulenza per sapere come dovrei comportarmi per sapere almeno in che situazione mi trovo.» Ma queste frasi, che in qualche modo fanno per l’appunto anche sorridere, sono sempre seguite o precedute da altre di tutt’altro tono, che ci ricordano invece con crudezza le realtà drammatiche di cui stiamo parlando: mio marito mi picchia, ma la cosa peggiore è che non smette di dirmi che non valgo nulla; credo che mio marito mi ha rotto il naso e ho vergogna di andare dal dottore; ieri sera mio marito mi ha tirato una gomitata in bocca per farmi stare zitta. Insomma, «pour résumer je suis très fatiguée», per farla breve sono molto stanca.
Come rispondere a queste richieste d’aiuto? Come rispondere a questa violenza che riguarda in Svizzera, statistiche alla mano, una donna su quattro nell’arco della sua vita1? Ma soprattutto, come mettervi fine?
Roba da uomini
Una delle chiavi, per eliminare la violenza contro le donne, è sicuramente quella di lavorare sulla mentalità delle persone, sul modo in cui ancora in troppi vedono e considerano le donne. Come dice Carmen Consoli, in un’intervista che ho citato nella prima parte di questo Non una recensione, «la questione è prima di tutto culturale», prima di aggiungere: «bisogna essere pratici». E se c’è una persona che ha pienamente dimostrato di essere pratica nel cambiare la mentalità di interi gruppi di persone, riguardo ai rapporti fra uomini e donne, questa è Jackson Katz.
Jackson Katz è un educatore e autore, attivo in particolare nella prevenzione della violenza di genere fra i giovani statunitensi. È stato lui, non di persona ma attraverso un suo libro, a farmi aprire gli occhi sul fatto che il problema della violenza sulle donne è soprattutto un problema maschile, e che l’eliminazione di tale violenza passa prima di tutto da noi uomini e dalla nostra volontà di metterci in gioco. Il libro è uscito nel 2006 e si intitola The Macho Paradox: Why Some Men Hurt Women and How All Men Can Help (anche di questo, purtroppo, non è disponibile una traduzione italiana).
Nel suo saggio, Jackson Katz parla della sua esperienza sul campo e parte proprio da questo importante presupposto: per mettere fine alla violenza contro le donne, bisogna prima di tutto rendersi conto che si tratta in massima parte di violenza perpetrata da uomini; che dietro una donna maltrattata c’è un uomo che la maltratta; e che, in sostanza, dovremmo smetterla di parlare di “violenza contro le donne” e cominciare il più presto possibile e il più trasversalmente possibile a parlare di “violenza degli uomini contro le donne”.
In questo senso è però importante soffermarsi un attimo sul sottotitolo del libro, dove si fa riferimento non a caso ad “alcuni uomini”, per parlare di quelli che usano violenza contro le donne ‒ mettendo immediatamente fuori gioco il classico commento: «Ehi, ma io non sono mica uno stupratore!» ‒ mentre si fa capo a “tutti gli uomini”, quando si tratta di chiamarli all’adunata per risolvere questa annosa questione, facendo capire che tutti gli uomini possono rivestire un ruolo importante nel mettere fine alla violenza contro donne, indipendentemente dalla loro posizione, e che è quindi prima di tutto una questione di volontà: se non ti metti in gioco è perché decidi di non farlo, non perché non puoi o perché il tuo apporto sarebbe comunque inutile o ininfluente.
Nel primo capitolo del libro, poi, intitolato per l’appunto Violence Against Women Is a Men’s Issue, la violenza contro le donne è una questione maschile, Jackson Katz si chiede e ci chiede senza mezzi termini: «Isn’t it about time we had a […] conversation about the male causes of this violence, instead of endlessly lingering on its consequences in the lives of women?», non è forse arrivato il momento di parlare delle cause maschili di questa violenza, invece di soffermarsi sempre e solo sulle conseguenze che essa ha sulle vite delle donne?
Guardare in un altro modo, non in un’altra direzione
Che sia chiaro, non si tratta assolutamente di mettere in discussione i servizi d’aiuto alle donne vittime di maltrattamenti, come quello per cui lavorava Eléonore Mercier e da cui è poi nato il libro Je suis complètement battue. Il succo del discorso è però che, se il nostro scopo non è quello di limitarci a curare le ferite, ma quello di sradicare il male, l’unico modo per raggiungere l’obiettivo è quello di concentrare la nostra attenzione sugli uomini invece che sulle donne. Ma portare i riflettori sugli uomini non basta. Bisogna anche capire cosa fare una volta che abbiamo messo gli uomini al centro della scena.
Nei suoi programmi, Jackson Katz non si limita in effetti a spostare l’attenzione, per quanto fondamentale sia questo primo passo. Ciò che lui e i suoi colleghi fanno, da anni, è coinvolgere quegli uomini che più di altri possono contribuire a cambiare questa cultura e questo tipo di mentalità, che porta ancora troppi uomini a utilizzare la violenza per gestire le proprie relazioni con le donne.
Quali sono questi uomini? Da una parte, sono quelli che vengono riconosciuti dai loro pari, da altri uomini, come dei leader ‒ nelle squadre sportive, a scuola, sul lavoro. Dall’altra, sono quelli che in inglese vengono chiamati “bystanders”, ovvero quegli uomini che non utilizzano la violenza, ma che ne sono testimoni silenziosi; che, pur disapprovando quel tipo di comportamento, non dicono nulla. «Quando si parla di uomini e di cultura maschile», dice Jackson Katz nel TEDtalk che ha tenuto sull’argomento, «l’obiettivo è quello di raggiungere gli uomini che non sono violenti, e convincerli a sfidare quelli che lo sono.»
Di uomini che danno una mano, che reagiscono, già ce ne sono. Una dimostrazione la troviamo anche nel libro di Eléonore Mercier di cui parlavo all’inizio, seppur siano poche gocce nel mare. «Mon fils vous a appelé car je suis effectivement battue», mio figlio vi ha chiamato perché vengo effettivamente picchiata, per fare un esempio. Oppure: «Une amie de mon épouse est arrivée chez nous pieds nus», un’amica di mia moglie è arrivata a casa nostra a piedi nudi. O ancora: «Je téléphone pour moi, je deviens agressif», telefono per me, sto diventando aggressivo.
Il problema sta nel fatto che siamo abituati ‒ tutti, uomini e donne ‒ a credere che la sola cosa che possiamo fare è aiutare le donne vittime di violenza quando la violenza è già avvenuta, e sta magari avvenendo da mesi, se non da anni. La sfida sta quindi nel convincerci ‒ uomini in primis, ma le donne con loro ‒ non solo ad aiutare le donne vittime di violenza, bensì a mettere in discussione l’idea che abbiamo di virilità. La figura del “vero uomo” è infatti ancora strettamente legata all’uso della violenza e della minaccia di utilizzare violenza per regolare le proprie relazioni sociali, nonché a una sorta di “diritto” degli uomini ad avere un controllo sulle donne della loro vita. Si tratta, insomma, ancora una volta, di mettere in discussione i cliché e gli stereotipi di genere.
In questo senso, uno dei passaggi che più mi ha colpito, del libro di Jackson Katz ‒ e uno di quelli che mi ha spinto ad approfondire il tema dei cliché anche in altri ambiti ‒ è in effetti quello in cui dice che «l’alto tasso di violenza domestica e sessuale è causato non da qualche sostanza disciolta nell’acqua (o dal corredo genetico), ma dalla maniera in parte contraddittoria e disfunzionale con cui la nostra cultura definisce la “virilità”.» La violenza, infatti, ha origine non solo, ma in gran parte, negli stereotipi in cui nuotiamo quotidianamente e che costituiscono una grossa fetta di quella cultura che dobbiamo cambiare. E a supporto di questa tesi, c’è una nuova “teoria della violenza” di cui vi parlo immediatamente sotto al video.
Se leggete l’inglese e vi interessa trovare soluzioni al problema della violenza degli uomini contro le donne, vi consiglio davvero di leggere The Macho Paradox. Sebbene parli della realtà statunitense, per molti versi diversa da quella europea, credo si possano trovare tanti spunti interessanti. Se invece leggete sì l’inglese, ma non ve la sentite di affrontare uno libro intero, Jackson Katz ha messo liberamente a disposizione anche un documento intitolato 10 Things Men Can Do to Prevent Gender Violence, 10 cose che gli uomini possono fare per prevenire la violenza di genere. In alternativa ‒ o in aggiunta, oppure anche come punto di partenza prima di approfondire ‒ potete senz’altro guardare il suo TEDtalk sull’argomento, sempre in inglese ma con sottotitoli in italiano.
Scavare più a fondo
Quando si parla di “violenza degli uomini contro le donne” ritengo importante ricordarsi di una cosa: a livello statistico, la maggior parte delle vittime della violenza degli uomini sono altri uomini. Se dico questo non è per sminuire il problema della violenza degli uomini contro le donne, relegandola a problema marginale della nostra società. Al contrario, mettere in prospettiva le cose, rendendosi conto che la violenza degli uomini contro le donne è in realtà un sottoinsieme di un problema più grande, penso possa essere utile a trovare una soluzione.
Se sono anch’io un fervido sostenitore dell’essere pratici, concreti, quando si tratta di risolvere un problema, personalmente credo molto anche nel cercare nuove idee, formulare nuove teorie, rimettere costantemente in discussione ciò che pensiamo ‒ come società ‒ di sapere. Oltre a chiedersi come fermare la violenza è quindi utile, trovo, chiedersi anche quale sia la sua reale origine, in modo da poter sviluppare strategie di intervento pratico sempre più efficaci.
Come detto sopra, l’origine della violenza degli uomini contro le donne, perlomeno nelle culture occidentali, ha molto a che fare con gli stereotipi di genere, che influenzano le nostre vite in maniera molto più forte di ciò che siamo di solito portati a credere. E come preannunciato, per concludere voglio segnalarvi una pubblicazione recente, il risultato di una lunga ricerca accademica, che lo conferma, generalizzando anche ad altri aspetti che influenzano gli individui e le comunità di tutto il mondo. Il libro che presenta questa nuova “teoria della violenza” si intitola Virtuous Violence: Hurting and Killing to Create, Sustain, End, and Honor Social Relationships ed è stato pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2014.
Il presupposto di partenza, come nel caso di The Macho Paradox, è apparentemente controintuitivo. Alan Page Fiske e Tage Shakti Rai, gli autori del libro, sostengono infatti che la violenza non solo non sia moralmente sbagliata, dal punto di vista di chi la commette, ma che al contrario la moralità sia alla base stessa della decisione, più o meno razionale, di commettere un determinato atto violento.
Lungi dal giustificare o dal dire che la violenza sia qualcosa di positivo per la società ‒ moralmente giusto, nel senso comune del termine ‒ questa teoria invita a guardare questo tipo di atti dal punto di vista di chi li commette, arrivando a concludere che la violenza è virtuosa, nel senso che è sempre ‒ o quasi ‒ motivata da ragioni morali. In sostanza, chi commette violenza lo fa perché lo crede giusto, quando non dovuto o moralmente necessario, persino obbligatorio rispetto alle regole sociali che vigono nella propria comunità. Come ben riassume Steven Pinker, nell’introduzione al libro, «quasi tutti quelli che commettono violenza non sono patologici né hanno un interesse egoista nel commettere tale violenza, bensì sono convinti che ciò che stanno facendo sia al servizio di un valore morale più alto.»
Quali conseguenze?
La violenza, si dice nel libro, è prima di tutto un modo di regolare le proprie relazioni con gli altri. Se la violenza è accettata o addirittura richiesta dalla società in cui vivo, sarò portato ad utilizzarla per regolare i miei rapporti con gli altri. Se al contrario essa viene condannata, nei singoli atti quotidiani, più che nei discorsi generali, sarò spinto a trovare altri modi di gestire le mie amicizie e i miei affetti, così come i conflitti ai quali sarò confrontato. Trovo sia importante tenerlo ben presente, in particolare quando si parla della violenza degli uomini contro le donne, in cui la relazione fra un uomo e una donna è spesso centrale.
Il libro, di per sé, non parla specificamente di violenza domestica o di violenza di genere. Anzi, a mio avviso, i capitoli in cui se ne parla potevano essere maggiormente approfonditi; e non è detto che i due ricercatori li stiano approfondendo o che lo faranno in futuro. Resta il fatto che, oltre a essere una teoria solida e generale che spiega in maniera convincente dove ha origine la violenza, Virtuous Violence conferma quanto sia importante lavorare sulla cultura e contro gli stereotipi, perché gran parte di ciò che siamo come persone e come società è determinato da essi, molto più di quello che crediamo.
Per questo motivo, nella terza parte di questo Non una recensione, abbandonerò il tema della violenza, ma non quello dei cliché e degli stereotipi. Ciò che vi aspetta è una bellissima serie web canadese!
Questo articolo è stato più volte modificato, per rimediare a una pubblicazione un po’ troppo frettolosa. E di questo mi scuso sinceramente.
4 pensieri su “Di donne e di uomini, ma soprattutto di donne (2/4)”