Il giallo è servitoRacconti

L’andirivieni del Diamante (1/6)

Tempo di lettura: circa 4’30”. /// Un racconto della serie Il giallo è servito. ///

La cameriera di Due quaglie e una mezza carota ha trovato un nuovo lavoro. Le condizioni non sono delle migliori, anzi, ma ha una famiglia da mantenere oltre confine. Senonché, nella confusione generata dall’andirivieni fra i tavoli e la cucina…


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L’andirivieni del Diamante


Episodio 1 ‒ Episodio 2Episodio 3Episodio 4Episodio 5Episodio 6


Trovare di nuovo un lavoro, dopo la vicenda delle due quaglie e della mezza carota, non è stato facile. Ma nemmeno difficile.

Ezechiele Bernasconi, che conosco da quando avevamo lavorato insieme a una festa campestre, era appena stato denunciato alla polizia dalle sue due cameriere, le quali se ne erano andate sbattendo la porta. Si era così ritrovato con un ristorante di sua proprietà da gestire, una cucina da mandare avanti e assolutamente nessuno a servire ai tavoli. Avendomi riconosciuta negli articoli di giornale che parlavano del caso, aveva pensato che potessi essere interessata a fare da sola il lavoro di due persone, in nero e senza alcuna garanzia riguardo al futuro.

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Che fosse stato denunciato dalle due precedenti cameriere, in realtà, l’ho scoperto solo dopo essere stata assunta. Era stato Normanno, l’ex-proprietario del locale, a dirmelo. Dopo aver creato e gestito per anni l’Osteria Il Diamante, l’età gli aveva consigliato di venderla e di ritirarsi a fare il nonno a tempo parziale. Lui però non si era mai deciso a seguirlo, quel consiglio. Così, a convincerlo, era stata piuttosto la sua schiena, la quale aveva cominciato a mandargli piccoli ma inequivocabili segnali di cedimento. Oltre a Martina, che si ritrovava ogni volta a zittire la sua schiena con degli impacchi.

Normanno dice c’est la vie. Martina risponde c’est la vieillesse, mio caro. Io sorrido e gli servo il caffè.

Martina è una donna risplendente e serena. Non so se si dice, di una persona, che risplende, ma non saprei come dirlo altrimenti. Abitano ancora qui di fronte al loro vecchio locale. E sebbene non siano molto contenti della nuova gestione, non è raro che passino ancora di qui, per mangiare qualcosa o semplicemente per bere un caffè.

Quel giorno a pranzo hanno chiesto entrambi un’insalata. Per iniziare. Poi una luganighetta per lei e degli ossi buchi per lui, con del risotto come contorno. Io sono andata in cucina a riferire l’ordinazione. O la comanda, come dite qui in Ticino. Ho detto Eze due insalate, un risotto-luganighetta e un risotto-buchi. Lui ha detto arrivano subito bellezza.

Ezechiele chiama tutte le donne bellezza. Non ho ben capito se per essere carino. O per non doversene ricordare il nome.

In sala c’era anche una dolce famigliola. Lui, lei e due bambini maschi. Più grandi dei miei, ma non di molto. Seconda e quarta elementare, direi. Non li avevo mai visti, al Diamante, ma quello che immagino fosse il padre era passato a salutare Ezechiele in cucina, prima di sedersi al tavolo. Me lo ricordo perché, proprio mentre io uscivo con tre piatti di asparagi marinati alla piastra, per un trio di assicuratori in giacca e cravatta, me lo sono ritrovato davanti. Il che mi ha costretto a evitarlo e a fare un po’ di jonglage coi piatti, per non farli diventare asparagi alla piastrella.

Devo però dire che è la struttura del locale, a non aiutare il servizio. Più tardi mi è di nuovo successa la stessa cosa. E non era la prima volta. È davvero fatto male, questo ristorante. Avevo in mano i due piatti di risotto per Normanno e Martina. E uscendo, quasi mi scontro con la mamma della dolce famigliola, che usciva dal bagno con il figlio più piccolo.

Ho portato i risotti al tavolo. Normanno non c’era, si era alzato. Ho servito i due piatti dicendo ecco qua Martina. Sorridendole, perché lei è una di quelle clienti a cui ti viene sempre voglia di sorridere. Anche lei ha sorriso e ha detto grazie cara.

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A quel punto, un operaio in tenuta da lavoro è entrato e si è seduto vicino alla finestra. Ho detto arrivo subito, vuole qualcosa da bere? Lui ha detto una gazzosa. Sono tornata in cucina a prendere tre dessert. Ezechiele era steso sul pavimento a faccia in giù. Sono uscita con le tre fette di torta in mano. Ho servito i tre assicuratori in giacca e cravatta e sono andata a prendere una gazzosa al bar. Sono tornata verso l’operaio e ho chiesto la gazzosa la vuole al limone o al mandarino? Lui ha detto va bene il piatto del giorno. Mentre lo fissavo, lui ha continuato a leggere il giornale.

Tornata in cucina, Ezechiele non era più steso per terra. Al suo posto c’era una striscia di sangue che portava fin dentro la cella frigorifera. Ho gridato Eze un piatto del giorno, per farmi sentire fin dentro la cella frigorifera, se era lì che si era cacciato. Sono tornata fuori, per andare al bancone a prendere la gazzosa. Ho deciso di portargliene una al mandarino. L’ho servita all’operaio, ma poi mi sono bloccata. Sono tornata verso la cucina. L’operaio ha detto sì sì, va bene al mandarino. Io ho detto aspetti un attimo per favore, lasciandogli il bicchiere ma portandomi dietro la bottiglia a metà ancora piena.

La porta della cella frigorifera era chiusa. Prima era stata lasciata aperta. La striscia di sangue s’infilava sotto la porta. Ho spinto la porta lentamente, per vedere dentro. Ezechiele Bernasconi era sdraiato sulla schiena, con un coltello piantato nella pancia, ma non c’era nessun altro, lì dentro. Un attimo prima di rendermi conto che Ezechiele fosse morto, ho sentito il rumore della bottiglia di gazzosa che rimbalzava per terra e ho visto l’arancione dei coloranti mischiarsi con il rosso dell’emoglobina.

Come il commissario avrebbe poi scoperto più tardi, su quel coltello c’erano le impronte digitali di sole due persone: quelle di Ezechiele Bernasconi e le mie.


Continua con il secondo episodio.

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