Riflessioni alla seconda persona

L’utopia è uno yogurt

Tempo di lettura: circa 2’30”. /// Una riflessione alla seconda persona. ///

Di seguito una riflessione scritta durante l’ultimo giorno di Eventi Letterari, per cui quest’anno sono stato il coordinatore del Progetto Cenacolo, un workshop sui generis che coinvolge ogni anno giovani scrittrici e scrittori dalle varie regioni linguistiche della Svizzera. Fra un evento e l’altro, ci si trova a discutere su utopia e letteratura insieme ad un mentore, che quest’anno era lo scrittore italiano Alessandro Leogrande.



L’utopia è uno yogurt


Nel 2011, a Torino, è successa una cosa bellissima. Alcuni studenti di architettura sono venuti a conoscenza di un’immobiliare che, di lì a sei mesi, avrebbe intrapreso la demolizione di una vecchia fabbrica, per costruire su quello stesso sedime un quartiere residenziale di loft di lusso. Hanno allora preso contatto con il proprietario. E con il suo accordo, per i sei mesi in cui sarebbe rimasta ancora in piedi inutilizzata, hanno trasformato la ex-fabbrica Aspira in un luogo d’espressione.

A spingerli non c’era un’idea chiara, se non quella di sfruttare l’occasione unica di poter usufruire a piacimento di uno spazio che nel giro di qualche mese non sarebbe più esistito. Hanno così cominciato a spargere la voce fra i writer e gli street artist della città. Le pareti si sono via via riempite di immagini, di scritte e di colori. Col passare delle settimane, a Torino sono iniziati ad arrivare anche artisti da Bologna. E poi da altre regioni d’Italia, dal resto d’Europa. Nel frattempo, anche molti torinesi hanno cominciato a frequentare quel luogo: skater e gente interessata alla street art, che già facevano parte di quel mondo; ma anche famiglie con bambini e poi, in via ufficiale, rappresentanti del comune, che hanno visto in quel progetto un esempio di come quel tipo di cultura ‒ che spesso viaggia sul filo fra legalità e illegalità ‒ potesse esprimersi in modo positivo per tutti.

Poi i sei mesi sono passati. Le chiavi del luogo sono state riconsegnate ai proprietari. Ognuno è tornato alla propria routine. Le solite lungaggini burocratiche hanno ritardato i lavori. La fabbrica è rimasta in piedi più del previsto. Altre persone hanno ripreso possesso della ex-fabbrica, senza il consenso dei proprietari. Il comune e la polizia sono dovuti intervenire. La cosa si è risolta come sempre fra le recriminazioni, gli scontri e le polemiche. E ora quel sedime ospita effettivamente un quartiere di loft di lusso.

Eppure per un attimo, per il breve volgere di quei sei mesi, una piccola utopia si è effettivamente realizzata. E la chiave, forse, sta proprio in quei sei mesi, più che nel luogo in cui è nata. Perché forse l’utopia può esistere in qualsiasi luogo, a patto che abbia una data di scadenza stampigliata sopra. O meglio, a patto che quell’utopia preveda un limite temporale.

Che l’utopia sia quindi un non-luogo non nel senso che non può esistere fisicamente uno spazio che la possa accogliere, ma nel senso che l’utopia non deve essere definita da limiti geografici ‒ come un luogo, appunto ‒ bensì da limiti temporali? Che i confini dell’utopia, in quanto non-luogo, non siano da tracciare con delle linee su una carta geografica, ma con un conto alla rovescia nella linea del tempo?

Forse l’utopia è uno yogurt, ricca di fermenti dentro e con una data di scadenza fuori, sulla confezione; va consumata in fretta, prima che vada a male. Forse l’utopia, per sua stessa natura, non si può conservare: o la si consuma subito o la si butta. E forse è per questo che riusciamo a volte a toccarla con mano, ma che mai quella mano riesce ad afferrarla davvero.

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