Tempo di lettura: circa 8’00”. /// Non una recensione #1 (quarta e ultima parte). ///
Conoscete l’interactive storytelling? È una cosa che mi appassiona da anni. È una nuova forma d’espressione artistica. E in questa quarta e ultima parte di Senza parole, vi presento un paio di videogiochi che si avvicinano molto a ciò che sarà in futuro questa nuova disciplina artistica.
Senza parole (quarta e ultima parte)
Santa Clara, California, 1992. Alla Game Developer Conference di quell’anno, davanti a una platea formata da ingegneri informatici e game designer, Chris Crawford tiene il suo leggendario Dragon Speech. Oltre che di videogiochi e di tecnologia, però, nel corso di quella celebre conferenza, l’autore di Balance of Power parla di Don Chisciotte, di emozioni e di rapporti fra gli esseri umani. Giunto alla fine del suo intervento, fra lo stupore generale, Crawford impugna una spada. Inneggia quindi alla verità, alla bellezza, all’arte e grida «Chaaarge!», prima di attraversare la sala a passo di carica per affrontare la sua personale battaglia contro il drago, metafora della sua visione artistica dei videogiochi, fatta di esperienze davvero significative per chi li gioca. Uscirà poi al contempo dalla sala e dall’industria videoludica — un’industria che aveva lui stesso grandemente contribuito a far nascere — per non farvi più ritorno.
Il drago di Chris Crawford ha un nome ed è interactive storytelling, ovvero narrazione interattiva. E se il game designer americano l’ha trasformata nella sfida della propria vita, nell’ambito della ricerca scientifica è invece Janet H. Murray ad averne definito, fin dal titolo del suo libro del 1997 Hamlet on the Holodeck, l’obiettivo verso cui idealmente tendere: una tecnologia paragonabile all’Holodeck, la stanza olografica iperrealistica di Star Trek, su cui in seguito presentare un’opera della caratura dell’Amleto di Shakespeare.
Riusciremo ad uccidere il drago? Quanto è lontano l’equivalente dell’Amleto per l’Holodeck? Ma soprattutto, ha davvero senso provare ad arrivarci? Oppure, come si chiede la stessa Murray, «stiamo solo parlando di una costosissima maniera di riscrivere l’Amleto per un flipper?»
Come sono arrivato all’interactive storytelling
L’interactive digital storytelling ‒ o IDS ‒ è spesso malamente descritto come una via di mezzo fra un film e un videogioco. In realtà stiamo parlando di una nuova disciplina artistica, che parte da ciò che è stato fatto dal cinema e dai videogiochi, ma che vuole andare oltre, non si accontenta di sistemarsi a metà strada fra i due.
Come nel cinema ai suoi albori — quando si tendeva a riprendere pièce di teatro con la cinepresa, piuttosto che a girare quelli che oggi chiamiamo film — allo stato attuale l’interactive storytelling si limita quasi esclusivamente a replicare idee già esistenti, con l’ausilio delle nuove tecnologie interattive. Infatti, se da un punto di vista tecnologico abbiamo già l’equivalente di una primitiva cinepresa, a livello concettuale si brancola ancora nella semioscurità. Ciò che manca, insomma, sono idee davvero innovative che ci permettano di raccontare storie in modo radicalmente diverso.
Prima di studiare scrittura letteraria all’Istituto Letterario Svizzero di Biel/Bienne, ho studiato informatica al Politecnico di Losanna. Non era la mia strada, ma l’informatica ha continuato ad interessarmi. Così, quando si è trattato di scegliere un tema per la tesi teorica di Bachelor all’ILS, non ho esitato a scegliere l’interactive storytelling, e più in particolare il ruolo che l’autore gioca in questo contesto fatto più di ricerca tecnologica, al momento, che non di storie da raccontare.
Dopo la tesi, presentata nel 2010, ho seguito conferenze, partecipato a workshop e scambiato punti di vista e opinioni con varie persone che lavorano in ambito accademico, nell’industria del cinema e in quella dei videogiochi. Mi sono fatto un’idea piuttosto precisa della direzione in cui ci si dovrebbe secondo me muovere. E ora sto scrivendo un libro, che sarà il mio modo di esporla nei dettagli e di contribuire così allo sviluppo di questa nuova disciplina artistica.
Ma non divaghiamo. In questa quarta e ultima parte di Senza parole, voglio soprattutto presentarvi un paio di esempi, un paio di narrazioni interattive che vale davvero la pena conoscere.
Esprimere sentimenti con i videogiochi
Dimentichiamo quindi per un attimo i problemi tecnologici legati all’interactive digital storytelling, che approfondirò semmai in un’altra occasione. Se lo scopo è quello di creare una nuova forma di espressione artistica, lo sviluppo tecnologico è necessario, ma non sufficiente. Bisogna anche trovare un modo artistico di utilizzare questo nuovo medium. Senza idee e concetti davvero nuovi, nessuna tecnologia innovativa produrrà una nuova forma d’arte, la nascita di nuove opere. Tanto meno opere comparabili ai grandi capolavori, siano essi quelli di Shakespeare o di altri grandi autori o registi.
Fra i ricercatori e gli sperimentatori attivi nell’ambito dell’IDS, Chris Crawford è certamente uno dei più visionari. Il suo Dragon Speech del 1992, di cui parlavo all’inizio, è lì a testimoniarlo. In quel discorso, fra le altre cose, dice di sognare un «gioco che parli dell’amore passionale fra un ragazzo e una ragazza, e dell’amore decennale, sereno e maturo, fra un marito e sua moglie; giochi a proposito di un ragazzo che diventa uomo, e di un uomo che realizza di non essere più così giovane.» Ebbene, il gioco che sognava Crawford esiste già: si chiama Passage ed è precisamente questo, in grossi pixel e in cinque minuti di gioco. Oltretutto, si accontenta di tecnologie che erano già disponibili più di 20 anni fa.
A dire il vero, ciò che più sorprende, in questo gioco, è forse la motivazione che ha spinto il suo creatore a programmarlo. Jason Rohrer scrive, a proposito del suo gioco: «Un caro amico che viveva nel nostro vicinato è morto il mese scorso. E sì, ho pensato molto alla vita e alla morte, ultimamente. Questo gioco è un’espressione dei miei pensieri e dei miei sentimenti recenti.» Rohrer ha creato un programma informatico per esprimere i propri sentimenti. Rohrer non ha creato un gioco; con questa frase, ha creato una nuova forma d’espressione.
Passage di Jason Rohrer
Descrivere Passage non ha molto senso. Come scrive Janet H. Murray, «la percezione della trama, in un ambiente interattivo, è molto differente dalla percezione della trama in una situazione in cui si fa parte del pubblico.» Raccontare in modo lineare una possibile sessione interattiva con Passage non gli rende assolutamente giustizia. Il solo modo di apprezzarlo è giocarlo. Dal sito di Jason Rohrer, puoi scaricarlo liberamente per Mac, Windows o Linux.
Ad ogni modo, in breve, si tratta della storia di una vita. È un memento mori, come lo descrive lo stesso Rohrer. Durante tutta la durata del gioco siamo liberi di muovere il nostro alter ego in un mondo in due dimensioni. A seconda di come ci comportiamo, ci innamoreremo oppure no. Guadagneremo più o meno punti. Attraverseremo tanti o pochi scenari. Potremo avere un’influenza su tutto ciò che accade, tranne sul fatto che il nostro personaggio continuerà inesorabilmente a invecchiare, fino alla fine inevitabile. E quando ci arriviamo, Passage ci fa sentire un nodo in gola come l’ultima pagina di un romanzo o l’ultima scena di un film.
E se questo non vi basta, per convincervi che un videogioco possa essere considerato un’opera d’arte, un atto di espressione artistica, sappiate che ogni aspetto di Passage, ogni piccolo dettaglio è una metafora della vita. La più evidente è la linea del tempo nella quale si muove il protagonista, rappresentata dalla porzione di schermo davanti e dietro al personaggio controllato dal giocatore. All’inizio, quando siamo un giovane adulto, la parte di schermo dietro di noi è molto ridotta, dato che il personaggio non ha quasi un passato. In compenso, il futuro, la parte di schermo davanti a noi, è molto ampia, tutta da scrivere. Invecchiando, la parte dietro di noi si ingrandisce allo stesso ritmo delle nostre esperienze e della nostra collezione di ricordi. E verso la fine della vita, il passato prende quasi tutto lo spazio disponibile, lasciando solo una piccola porzione di futuro al protagonista ormai molto anziano.
Tutto questo, senza il bisogno di alcuna parola.
This War of Mine di 11 bit studios
Un altro esempio, più recente e tecnologicamente più avanzato, è This War of Mine, della software house polacca 11 bit studios, basata a Varsavia.
Questo gioco, disponibile per quasi tutte le piattaforme ‒ computer, console e mobile ‒ è un gioco di guerra. Ma a differenza dei vari Call of Duty, lo scopo del gioco non è quello di uccidere quanti più nemici possibile, bensì quello di sopravvivere. Ispirato all’Assedio di Sarajevo, avvenuto fra il 5 aprile del 1992 e il 29 febbraio del 1996, durante la guerra in ex-Jugoslavia, ci mette nei panni di un gruppo di personaggi ‒ ad esempio un’ex-giornalista, un ex-cuoco e un ex-calciatore professionista ‒ e ci mette nella difficile situazione di trovare le risorse per scaldarci e per nutrirci, o semplicemente di tenerci al corrente della siatuazione attorno a noi, spingendoci a trovare il materiale per costruire una radio.
Durante il giorno, la presenza di cecchini non permette ai personaggi di uscire dal loro rifugio. Durante la notte, però, è possibile esplorare i dintorni e capita di incontrare altri personaggi, controllati direttamente dal gioco. Starà a noi decidere, di volta in volta e in base alla nostra coscienza e alla situazione di salute dei personaggi che controlliamo, se tentare di aiutare queste altre persone o se derubarle o ucciderle, pur di garantire la nostra sopravvivenza, fino a che l’assedio della città non termina, evento che avviene in un momento casuale, deciso dal sistema.
In questo caso, delle parole, delle brevi descrizioni effettivente esistono, all’interno del gioco. Ma non sono al centro dell’esperienza. E seppur sviluppato con pochi mezzi, rispetto alle produzioni che vanno per la maggiore nel mondo dei videogiochi, This War of Mine ci costringe a riflettere su cosa voglia dire vivere un assedio. E lo fa in modo molto diverso, rispetto a un romanzo o a un film, dandoci in mano le chiavi del nostro destino. In modo diverso, ma non meno intenso ed efficace. Senza bisogno di tante parole. Sfruttando l’interattività per creare una piccola opera d’arte, l’espressione dei sentimenti dei suoi ideatori nei confronti della guerra in generale e di quella in ex-Jugoslavia in particolare.
Un pensiero su “Senza parole (4/4)”