Tempo di lettura: circa 8’30”. /// Una riflessione alla seconda persona. ///
Invecchiare, al giorno d’oggi, più che un fatto naturale sembra essere diventato una condanna a una vita più brutta di quella che si è vissuta fino a quel momento. Ma un episodio capitatomi in Sudafrica alcuni anni fa mi ha fatto pensare che c’è almeno un altro modo di vedere le cose.
Invecchiare, senza fretta
Riesci a ricordare il momento in cui ti sei resa conto che stavi cominciando a invecchiare? Voglio dire, quel preciso istante in cui si prende coscienza del fatto che, da quel momento in poi, si smette di crescere. L’hai presente?
Messa così, è una domanda un po’ brutale, me ne rendo conto. Soprattutto per te, che questa cosa dell’invecchiare non la stai vivendo sempre bene; non sempre con la serenità che invece di solito ti riconosco. Ma so che di me ti fidi. Anche quando ti dico che il posto in cui ti voglio portare è molto più dolce di quanto questa mia domanda lasci presagire.
Nell’autunno australe del 2007 ho trascorso qualche giorno a Port St. Johns, una cittadina di qualche migliaio di anime posta sull’estuario dell’Umzimvubu, in Sudafrica. Arrivandoci dal fiume o dalla strada che lo costeggia, dopo essersi infilati fra le colline, si passa attraverso una maestosa gola che viene considerata il vero e proprio cancello d’ingresso a quella distesa di case ‒ The gates of St. Johns. La regione è quella della Wild Coast, la stessa che ha dato i natali a Nelson Mandela, chiamata così dagli europei per via delle forti e calde correnti dell’Oceano Indiano, che rendevano particolarmente insensato pensare di situarci un porto. Perlomeno finché non hanno inventato il surf.
L’episodio di cui ti voglio parlare è accaduto la sera prima di lasciare questo posto, e spostarmi più a nord.
Di un tramonto e di Apartheid
Richard è uno di quei personaggi che si trovano nei luoghi turistici. Cominci a parlarci, contento di aver fatto la conoscenza di una persona del posto, e prima che tu te ne possa accorgere hanno concluso un piccolo accordo di rappresentanza con te.
Nello specifico, a Richard sono bastati uno sguardo e due scambi di battute per capire cosa propormi, e a quale prezzo. Nei giorni che hanno seguito il nostro incontro, grazie a lui sono andato a fare i fanghi in un’introvabile grotta, sperduta in mezzo al nulla, insieme a un folto gruppo di altri turisti; e ho provato la mia prima chakalaka, un piatto tipico sudafricano che ancora oggi di tanto in tanto cucino ‒ in quel caso si trattava della versione già pronta, scaldata sul fuoco direttamente dentro al barattolo di latta in cui l’Industria Alimentare l’aveva confezionata.
L’ultima sera, Richard mi ha convinto ad andare a guardare il tramonto dall’alto di uno dei gate di St. Johns. Mi ha lasciato nelle mani di un suo amico autista di taxi collettivo, poi se ne è andato e noi siamo partiti. Abbiamo parlato di lingue africane ed europee: della mia difficoltà a pronunciare le parole schioccate in xhosa (il suono ‘xh’ si pronuncia con uno schiocco di lingua) e del fatto che in Svizzera spesso ci sentiamo un sonderfall perché abbiamo quattro lingue nazionali ‒ il che fa un po’ ridere, pensando alle undici del Sudafrica. Poi è arrivato il tramonto e la luce è cambiata improvvisamente. È una cosa che mi sorprende sempre, abituato come sono a vedere il sole sparire dietro una montagna invece che dietro la linea dell’orizzonte. La vista era magnifica. Le silhouette degli uccelli, che passavano davanti al disco rosso del sole, erano da documentario della National Geographic. In effetti non so perché abbiamo cominciato a parlare della fine dell’Apertheid.
Gli ho chiesto se avesse votato, nel ’94. Mi ha detto di sì. Gli ho chiesto cosa avesse provato. Lui mi ha sorriso. Ha cercato le parole, per un momento. Poi si è messo a ballare, sempre sorridendo, come a chiedere al corpo di buttare fuori quelle parole che la ragione non riusciva nemmeno a trovare. Alla fine ci ha rinunciato. Mi ha fatto cenno di salire. Attorno a noi era ormai tutto buio.
Momenti risolutivi
Le parole vanno bene per descrivere il prima e il dopo. Puoi spiegare cosa è stato l’Apartheid, a parole, e parlare dell’importanza del lavoro che c’è stato dopo la sua fine, quello condotto dalla Commissione per la verità e la riconciliazione e da tutto il popolo sudafricano, come del resto ha fatto in maniera impossibilmente toccante Antjie Krog nel suo libro Country of My Skull (tradotto in italiano con il titolo Terra del mio sangue). Puoi parlare delle canzoni che hanno accompagnato la lotta, ricreando emozioni autentiche e fortissime, come è riuscito a fare Lee Hirsh con il documentario Amandla! Su di un piano più personale, uno può ricordare ciò che ha fatto o pensato quel giorno; o come si è sentito nei mesi successivi, a essere finalmente considerato un cittadino a pieno titolo del Paese in cui è cresciuto.
Ma per il momento preciso, quel momento risolutivo in cui decidi di lasciar cadere dentro all’urna la schedina di voto che ancora tieni fra le dita, per quello non ci sono parole. E se siamo fatti di qualcosa, oltre che di ossa e di carne, sono convinto che siamo fatti di questi momenti risolutivi, quelli che stanno al confine fra un prima e un dopo, che esistono solo nell’istante in cui prendiamo la decisione di lasciar andare il passato che teniamo fra le dita, per abbracciare con tutto il corpo ciò che di nuovo abbiamo davanti.
Vuoi un altro esempio? Lascia che ti porti a Berlino Est, questa volta. O meglio, all’esatta frontiera fra Berlino Est e Berlino Ovest, nel 1989, qualche giorno dopo la caduta del muro.
Noi e la Storia del mondo
Il 9 novembre 1989 avevo sei anni, anche se all’epoca avrei certamente puntualizzato ‘quasi sette’. Della caduta del muro non ricordo nulla. I primi ricordi della situazione internazionale, che non riuscivo comunque ancora bene a mettere a fuoco, cominciano con la prima guerra del Golfo, il concerto per Mandela libero e Italia ’90.
Se ti parlo del confine fra Berlino Est e Berlino Ovest è dunque per sentito dire. O meglio, per visto dire. C’è una scena, nel documentario di Joshua Atesh Litle The Furious Force of Rhymes, in cui un ragazzo cresciuto a Berlino Est descrive il momento in cui è andato per la prima volta a Ovest. Per essere chiari, non era fra quelli che hanno preso d’assalto i check point immediatamente dopo il maldestro annuncio di Günter Schabowski in diretta tv. Ci è andato qualche giorno dopo, da solo.
Si percepisce un momento risolutivo, nel suo racconto, quando arriva a quel confine che si è ormai sgretolato. Passare la frontiera non significa soltanto vedere Berlino Ovest per la prima volta. Appoggiando il piede dall’altra parte, decide di mettersi alle spalle quella che è stata la sua vita fino a quel momento, per prenderne un’altra fra le braccia, inevitabilmente diversa e ancora tutta da scrivere. C’è un momento, per quanto inevitabile, in cui lui stesso decide di lasciare che sia così, quello in cui decide di appoggiare il piede dall’altra parte del muro.
Ti sto parlando di qualcosa di leggermente sfasato, rispetto alla Storia. La schedina la lasciamo andare qualche ora prima che Mandela venga eletto presidente e anni dopo che è stato liberato. Il piede tocca terra qualche giorno dopo la caduta del Muro e molto prima della riunificazione delle due Germanie. Ma è proprio perché questi momenti risolutivi sono sfasati rispetto agli avvenimenti della Storia, che sono invece completamente in linea con la nostra storia personale. E se non sono la vita stessa, credo fortemente che siano fra i momenti in cui ci sentiamo più vivi.
Riesci a ricordare, adesso, quando ti sei resa conto che stavi cominciando a invecchiare? Adesso ce l’hai presente quel momento risolutivo in cui tenevi la tua giovinezza sospesa fra le dita, e dopo qualche istante d’attesa hai deciso di lasciarla andare, di accogliere a braccia aperte ciò che sarebbe seguito?
A me è successo su un vagone di seconda classe delle Ferrovie Federali Svizzere.
Treno in partenza dal binario sette
Il Binario 7 è quell’abbonamento che ti permette, per pochi soldi l’anno, di viaggiare senza limiti su qualsiasi treno svizzero dopo le sette di sera. Compiuti i 26 anni, però, non se ne ha più diritto. E dopo anni passati a utilizzarlo, anche per me è arrivato il momento di abbandonare l’idea di poter continuare ad libitum a viaggiare in quel modo.
Il controllore è entrato nel vagone e ha come al solito annunciato a tutti che sarebbe passato a chiedere i titoli di trasporto. Quello che fino al giorno prima era per me un gesto meccanico, improvvisamente assumeva un significato completamente diverso. Ho tirato fuori il biglietto con largo anticipo. L’ho tenuto fra le dita, l’ho girato e rigirato, guardandolo con un sorriso di cui non saprei definire la natura. Il controllore è arrivato e gli ho allungato il pezzo di carta.
Non ho messo fine all’Apartheid, con quel gesto. Non ho attraversato nessun confine, contribuendo a farlo definitivamente cadere. Ho semplicemente preso la decisione, allungando il mio biglietto al controllore, di accettare il fatto che da quel momento avrei smesso di crescere, per cominciare gradualmente a invecchiare. E se mi chiedi cosa significa per me invecchiare, ti dico che vuol dire prendersi il tempo di arricchire la propria collezione di momenti risolutivi, uno alla volta, senza foga alcuna ma in piena coscienza.
Cosa sarà il prossimo? Realizzare di essere diventato padre, forse. Oppure tagliare il traguardo alla maratona di New York, dopo essermi preparato per anni. O forse rendermi conto di aver portato a compimento un progetto su cui ho lavorato tanto. Tu lo sai, quale sarà il prossimo momento risolutivo che ti troverai ad affrontare?
Prova a pensarci. Cosa stai decidendo di lasciarti alle spalle?
In un diario, poco prima di quei fatidici 26 anni che mi hanno tolto il Binario 7 dal borsellino e la giovinezza dalla vita ‒ e prima di quel viaggio in Sudafrica ‒ ho chiesto a me stesso ‘Cosa vuoi fare da grande?’ Mi sono dato una risposta che ritengo valida oggi più che allora: ‘Invecchiare, senza fretta.’
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