Non una recensione

Visioni distopiche di città italofone (2/4)

Tempo di lettura: circa 8’00”. /// Non una recensione #3 (seconda parte). ///

A cosa serve la cultura? E che valore le diamo, in fin dei conti? Per scoprirlo, questa settimana vi porto nella Napoli dei Negromonte e di Giuseppe Montesano, con un brevissimo passaggio nella Londra di 1984


Napoli6


Visioni distopiche di città italofone (seconda parte)


Di questa vita menzognera di Giuseppe Montesano è una lettura fastidiosa. Il che, nell’ambito della letteratura distopica, è spesso un pregio.

Benvenuti allora in una Napoli di un futuro non troppo lontano, che in realtà potrebbe anche essere un presente parallelo o sotterraneo o magari l’immagine di una città che si rimira in uno specchio distorto, senza troppo rendersene conto. D’altra parte, come dicevo nella prima parte del Non una recensione di questo mese, «la fantascienza che amo è quella che cambia poche cose al mondo in cui viviamo. Una fantascienza che però, allo stesso tempo, dentro a quei cambiamenti ci scava e ci sguazza a fondo.»

BibliothequeEntre-MondesNon so se Giuseppe Montesano farebbe rientrare il suo romanzo nella categoria “fantascienza”. Ciò che è sicuro è che gli editori, generalmente, non sono molto propensi a farlo, dato che la fantascienza è vista ‒ spesso a torto, secondo me ‒ come un genere di seconda classe. O perlomeno, commercialmente, come un genere di nicchia, con le sue regole e il suo pubblico; e per un romanzo che ha a che vedere solo marginalmente con i canoni del genere, come è il caso di questo, venire pubblicato sotto quell’etichetta difficilmente fa vendere bene.

È pur vero che questo mese parliamo, più che di fantascienza, di visioni distopiche. Si tratta forse di un sottoinsieme. O di qualcosa di diverso, a cavallo fra il reale e l’immaginario. Nel suo Bibliothèque de l’Entre-Mondes, Francis Berthelot le chiama “transfiction” e si dilunga molto su questo a volte labile confine che esiste fra la letteratura generalista e la letteratura del fantastico, una zona grigia nella quale hanno danzato autori che vanno da Kafka a Palahniuk, passando per Dino Buzzati, Jorge Luis Borges e ‒ uno dei miei preferiti ‒ Haruki Murakami.

Qualunque cosa pensiate a riguardo, vi voglio però ora invitare a proseguire il nostro viaggio, lungo questo itinerario che ho tracciato fra quattro visioni distopiche di città italofone. Dopo la Venezia del 2092, la settimana scorsa, questo venerdì si parte come detto in compagnia di Giuseppe Montesano, in direzione di Napoli!


Di questa vita menzognera di Giuseppe Montesano

DiQuestaVitaMenzogneraLa storia è quella di una ricca famiglia napoletana rozza, volgare e senza scrupoli che, grazie anche alla connivenza dello Stato, decide di trasformare Napoli in un museo vivente, i cui abitanti diventano teatranti al servizio dei turisti. La famiglia è quella dei Negromonte e noi, in quanto lettori, la scopriamo e ne svisceriamo pensieri e vizi attraverso gli occhi di Roberto, universitario disoccupato che finisce a fare da segretario a Carlo Cardano, dandy insopportabile e inetto, nonché marito di Amalia Negromonte.

La scena iniziale, che vede Roberto catapultarsi nel mondo dei Negromonte più per curiosità e disperazione, che non con una reale coscienza di ciò che sta facendo, è secondo me molto riuscita e dà il tono a tutto ciò che segue. Di questa vita menzognera si apre infatti con un divertente dialogo a senso unico fra Roberto e sua madre, durante il quale lei si lamenta per l’incapacità del figlio di mantenere un lavoro, a causa dei suoi principi, del suo rifiutarsi testardamente di fare il lecchino o di scendere a compromessi pur di trovare un lavoro. «E certo, se facevi pure tu economia e commercio, era un’altra cosa. Ti sei voluto prendere una laurea inutile, e adesso che vuoi? […] Ah, a te il turismo e le partite iva ti fanno schifo? Tuo fratello Eduardo è nu strunzo e tu non gli chiedi scusa nemmeno morto schiattato? E allora mangiati la dignità!» Ed è proprio mentre la madre continua a parlare e a parlare senza che il figlio reagisca o ribatta, che a Roberto cade l’occhio su una strana offerta di lavoro: «Quando cominciai a leggere l’annuncio di Cardano mi tremavano ancora le dita per la rabbia, ero bagnato fino all’osso dalla pioggia gelida e la voce di mia madre mi sbatteva in testa come una banda di ottoni.»

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Sin dall’inizio, italiano e dialetto si mischiano e si arricchiscono a vicenda. I dialoghi sono in qualche modo difficili da seguire, diventando spesso gazzarra, cagnara confusa. Conta di più sbraitare e farsi sentire, che non dire e farsi ascoltare. Anche per questo motivo, come dicevo all’inizio, si tratta di una lettura fastidiosa, ma non per forza di cose in senso negativo. Perché il mondo stesso dei Negromonte è fastidioso, come è fastidioso il loro modo di vedere e interpretare la realtà delle cose, applicando ciecamente dottrine economiche che non capiscono, utilizzando a sproposito termini inglesi solo perché vanno di moda o semplicemente mostrando con orgoglio la propria ignoranza. Per finire, sono fastidiosi anche i personaggi che popolano il romanzo: quelli maschili, nella loro arroganza e nel loro arrivismo ‒ o al contrario, nel loro disfattismo; quelli femminili, nel loro essere poco più che stereotipi subalterni.

L’elemento di distopia, nel romanzo di Giuseppe Montesano, sta insomma nella cultura, nel senso più ampio che possiamo dare al termine; nel fatto che la civiltà, nell’orizzonte ristretto che abbiamo, non sembra più essere tale.


Una questione di cultura

Attraverso gli occhi del narratore, Roberto, ci troviamo ad essere infatti testimoni di ciò che è la famiglia Negromonte e dei loro grandiosi piani per se stessi, e per Napoli. Parte del fastidio che ho provato leggendo il libro è dato anche da questo: essere testimoni e basta, senza la minima possibilità di intervenire, di dire “guardate che le cose non stanno così”. In questo senso, immedesimarsi in Roberto è piuttosto facile, dato che anche lui, forse per riuscire finalmente a mantenere il proprio posto di lavoro, assiste fedelmente Carlo Cardano, per quasi tutta la durata del romanzo e senza mai veramente intervenire nelle discussioni. Difficile dire se anche lui prova quello stesso fastidio o se, al contrario, sia effettivamente riuscito a spegnere il proprio senso critico, come implicitamente richiesto con foga e insistenza dalla madre nella prima scena.

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Ma in Di questa vita menzognera c’è anche un fastidioso disprezzo per la cultura su vari livelli. Il primo è chiaramente un disprezzo per le testimonianze del passato, e in particolar modo per il loro valore storico e archeologico, per la conoscenza di sé e della propria cultura che esse ci permettono di avere. I reperti, i vasi antichi, per i Negromonte non sono altro che un ulteriore modo di sfoggiare il proprio potere e la propria ricchezza; il patrimonio storico di Napoli, buono solo come fonte d’introiti grazie al turismo. E se pensate che non possa andare peggio, considerate che, in fondo, la cultura siamo prima di tutto noi, le persone, la gente che in una città o in una regione ci vive. Bene, in Di questa vita menzognera la gente di Napoli, secondo i piani della famiglia Negromonte, dovrebbe anch’essa essere messa a servizio del turismo, in qualità di figuranti in costume, con la promessa di dare un lavoro sicuro a tutti.

C’è però anche un secondo forte disprezzo per la cultura, nel romanzo distopico di Giuseppe Montesano. Un disprezzo completamente diverso, forse addirittura opposto. Ed è quello di Carlo Cardano, con cui all’inizio simpatizziamo, proprio perché si schiera, seppur non apertamente, contro la famiglia Negromonte. Si tratta di un disprezzo per la cultura come qualcosa di tutti. Per Cardano, la cultura dovrebbe essere qualcosa di assolutamente elitario, inaccessibile. Per Cardano, un museo dovrebbe essere un luogo a cui solo lui avrebbe accesso; lui, l’unico in grado di capire ciò che il museo segretamente racchiude.

C’è poi un terzo disprezzo per la cultura, forse più velato, ma secondo me molto presente: un disprezzo per la lingua, per le parole, e in particolare per il significato delle parole. Come dicevo più sopra, i dialoghi diventano spesso gazzarra, cagnara confusa, come a significare che ciò che conta, nel mondo dei Negromonte, è solo il rumore.

Ed è questo aspetto, più di ogni altro ‒ credo ‒ che mi ha fatto tornare in mentre un capolavoro della letteratura distopica quale 1984 di George Orwell.


1984 di George Orwell

1984A prima vista, i due libri non potrebbero essere più diversi. Eppure, questo stretto legame fra la lingua e la cultura me li ha fatti mettere in relazione. Winston Smith, il protagonista del romanzo di Orwell, di mestiere fa quello che “riaggiusta” la Storia, per fare in modo che sia coerente con l’evoluzione della linea ufficiale del partito. Attraverso le parole, modifica ciò che è stato. Il passato come testimonianza, dunque, non ha più nessun valore, come nella visione del mondo dei Negromonte.

E come non citare, per chiudere, il Newspeak, la nuova lingua in cui il significato delle parole è stato modificato?

La settimana prossima vi porterò in Ticino. A Lugano, per essere precisi, terza piazza finanziaria elvetica, di cui tra l’altro parlano anche i Negromonte.


“Ma qua’ Borboni? Ma qua’ nobiltà d’ ‘o cazzo? Noi siamo moderni, e simmo nuie, ‘a nobiltà! ‘A nobiltà d’ ‘e figlie ‘e zoccola, Marce’, quella che non schiatta mai!”

Ferdinando aveva ragione, disse il Calebbano. Lo sciacallo si divertiva con quella “pazziella del regno”, ma era solo per fare un po’ di scena. Il potere centrale, l’esercito e le televisioni nazionali restavano nelle mani del Presidente, il governo dava il Sud in concessione ai Negromonte e agli altri imprenditori, e in cambio riceveva la massima fedeltà. Era una forma di outsourcing, no? Quello che prima l’azienda faceva da sola, ora lo lasciava fare a altri. Non era quello, il progetto del Presidente? L’Italia in outsourcing avrebbe realizzato il passaggio definitivo a una società in cui chi produceva la ricchezza si assumeva anche il peso di governare.

“Marce’, tu dici che poi l’Europa rompe il cazzo? Ma se l’Europa ci dà i soldi, va bene, o se no facciamo la Svizzera napoletana! ‘E banche c’ ‘o segreto, ‘o dollaro, e nu grande paraviso fiscale! E che? ‘O Canton Ticino fosse meglio ‘e Surriento? […]”

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