Tempo di lettura: circa 4’30”. /// Non una recensione #3 (quarta e ultima parte). ///
A me, La grande bellezza di Paolo Sorrentino non è piaciuto. Ma l’ho trovato un film interessante. In particolare per il suo controintuitivo elemento distopico. Preparatevi per l’ultima tappa del nostro viaggio: Roma!
Visioni distopiche di città italofone (quarta e ultima parte)
Tempo fa, per aiutare un amico ad imparare l’italiano, gli ho consigliato di guardare ogni tanto Rai1, il solo canale italiano che riceveva sul suo televisore, per abituarsi ad ascoltare il suono della lingua e provare a seguire un discorso anche senza capire tutto, il che è una cosa molto meno facile di quanto sembri, quando si sta imparando una lingua straniera. Dopo qualche tempo gli ho chiesto: «Allora, stai provando a guardare un po’ di televisione italiana? Ti aiuta?»
«Sì, ci ho provato», mi ha detto lui, utilizzando il verbo al passato, come se per qualche motivo avesse ormai smesso di farlo. «Ci ho provato, ma ogni volta che metto su Rai1 vedo solo donne seminude che ballano, e con l’italiano non mi aiuta.»
Era la Rai1 mediasetizzata di quando Berlusconi era presidente del Consiglio. Parte dell’estrema beceraggine di quel periodo credo l’abbia persa. Ma se vi parlo di questo è perché, ne sono convinto, La grande bellezza di Paolo Sorrentino in fondo parla di quello che l’Italia sarebbe, se l’Italia fosse chiusa dentro alla sua televisione, senza possibilità di uscirne.
E nel Non una recensione che chiude questo viaggio fra visioni distopiche di città italofone, vi porto proprio nella Roma di Sorrentino.
Sempre di distopia si tratta
Dopo una Venezia post-inondazione, una Napoli in mano a imprenditori ignoranti e senza scrupoli e una Lugano separata dall’Italia da un muro, oggi è quindi la volta di una visione distopica della città eterna. A ben guardare, è vero, La grande bellezza non è proprio vicina alla classica idea di distopia.

Una mia riflessione alla seconda persona.
Prima di tutto, a differenza delle visioni distopiche a cui ci hanno abituato sia il cinema sia la letteratura, in questo caso si tratta di uno sguardo parziale, portato solo su una parte ristretta della società. Ciò che viene ritratto nel film, non è insomma l’ipotesi di cosa potrebbe accadere alla società nel suo insieme, se si dovessero verificare determinate condizioni, ma il ritratto di un sottoinsieme della società.
Secondariamente, non credo fosse intenzione di Sorrentino ‒ o perlomeno non la sua intenzione primaria ‒ quella di mettere in scena una degenerazione del presente. In questo caso, si tratta piuttosto di portare sullo schermo una parte del nostro presente, senza calcare troppo la mano, se non nel forzare le cose per un puro effetto di umore nero o di triste ironia.
E per terminare, come dicevo nel primo articolo della serie, in quasi tutte le visioni distopiche, per quanto cupe possano essere, c’è sempre una fiammella di speranza che fa da motore alla storia, c’è sempre qualcuno che non accetta lo statu quo e lotta per cambiare le cose. Ne La grande bellezza, io di speranza non ne ho visto nemmeno un barlume.
Ma allora perché ho deciso di inserire questo film in questa mini-rassegna di visioni distopiche?
Una Roma vacua e autoreferenziale
A me, La grande bellezza non è piaciuto. L’ho trovato molto ben realizzato, ma non mi è piaciuto. Ho però il sospetto che sia più che altro la mondanità, a non piacermi, a mettermi a disagio. E siccome Jep Gambardella, il protagonista del film, si autodefinisce il re dei mondani, non c’erano molte possibilità che apprezzassi il film.

Detto questo, l’ho comunque trovato un film molto interessante. Soprattutto nel suo elemento distopico, il quale sta, secondo me, nel portarci a immaginare una società in cui la mondanità sia il default sociale, in cui tutto sia mondanità. Una società, insomma, vacua e autoreferenziale, formata da un’umanità che non progredidrebbe più, che non affronta i problemi, li lascia semplicemente scivolare via insieme all’alcol fino in fondo alla gola, una civiltà in decadenza che non farebbe più nessun avanzamento sociale o tecnologico, dove le idee resterebbero dove sono, senza che nulla si muova più, nemmeno di un millimetro.
Si tratta di una sorta di processo inverso rispetto alla classica idea di distopia, quello che propone Sorrentino. Invece di creare una società degenerata nel suo insieme e di seguire l’evoluzione di un personaggio che pian piano si rende conto della situazione, e decide di ribellarsi alla realtà che vive, La grande bellezza ci costringe in qualche modo ad immaginare di essere noi quel personaggio, ponendoci di fronte alla domanda: cosa faresti, tu, se tutta la società attorno a te fosse così?
Verso la fine del film, Jep Gambardella dice: «So’ belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ i più belli di tutta Roma […] So’ belli perché non vanno da nessuna parte.» Cosa faresti, tu, se tutto attorno a te non fosse altro che una festa come quelle del film? Ti accoderesti al trenino, pur sapendo che non va da nessuna parte ‒ o peggio, proprio perché non va da nessuna parte? O invece decideresti di non accodarti, sapendo che quel gesto avrebbe come conseguenza l’esclusione? Continuare a far parte di un trenino che non va da nessuna parte o diventare un emarginato, rifiutato dall’intera società?
La distopia è questo, secondo me: mettere non solo il lettore o lo spettatore con le spalle al muro, ma non offrirgli più alternative. E poi chiedergli: «Adesso cosa fai? Adesso come ti comporti? Ora che non hai più possibilità di scelta, cosa scegli di fare?»
Credo che di tanto in tanto sia utile provare a sentirsi così. Se non altro, per apprezzare la possibilità di scegliere, quando ancora l’abbiamo.